acqueagitate

Dissidenza e guerra Ilya Budraitskis, Piero Maestri – da «Jacobin Italia» n. 15

Ilya Budraitskis, esponente della sinistra radicale russa, ricostruisce la natura imperialista dell’aggressione all’Ucraina e racconta un paese nel quale sono tornate egemoni le vecchie idee della destra più reazionaria. Fin dai primi giorni dell’aggressione all’Ucraina ci sono state prese di posizione nette e iniziative contro la guerra da parte di gruppi dell’opposizione russa. L’importanza di queste iniziative va oltre l’attuale momento di guerra e ci offre la possibilità di guardare cosa accade in Russia «in basso a sinistra». Ilya Budraitskis, attivista della sinistra radicale russa e autore del libro Dissidents among Dissidents uscito all’inizio del 2022 per la casa editrice Verso, è un testimone importante e interessante di questa prospettiva.

In Italia, ma anche in Europa occidentale, siamo abituati a guardare la Russia da una prospettiva geopolitica, cioè attraverso il suo rapporto con le altre potenze (Stati Uniti, Europa, Cina). Di conseguenza leggiamo le politiche dei governi russi solo in funzione di queste relazioni. Come vivono i dissidenti e gli oppositori politici di Putin questa lettura?

Penso che dovremmo parlare dell’attuale guerra, delle ragioni dell’invasione russa dell’Ucraina non solo in termini di geopolitica globale ma anche tenendo conto delle sue radici nei trent’anni di Russia post-sovietica, dell’evoluzione della coscienza dell’elité russa e della complicata relazione tra Russia e Ucraina. Se guardiamo al risultato immediato dell’invasione russa salta all’occhio come la crescente militarizzazione dell’Europa orientale o la possibile adesione alla Nato di paesi come la Finlandia o la Svezia siano risultati immediati della decisione delle autorità russe e non sembra una buona strategia per impedire la crescita della Nato. Come si vede è problematico leggere questa invasione in termini geopolitici, anche perché non si può dire che ci fosse una chiara strategia geopolitica, cioè rivolta alle relazioni internazionali nel loro insieme.

Quali sono le caratteristiche fondamentali della Federazione Russa dal punto di vista economico, politico e internazionale?

La Russia è sicuramente una potenza imperialista. L’imperialismo non è solo una logica puramente economica del capitalismo. C’è un’altra dimensione dell’imperialismo, che David Harvey chiama «logica territoriale». La Russia è soggetta a entrambe le logiche e sono profondamente intrecciate. Le imprese statali russe come Gazprom sono legate a questa logica territoriale. Hanno bisogno di assicurarsi il territorio per l’estrazione e gli accordi politici con gli stati per la spedizione del loro petrolio e gas attraverso gli oleodotti. Il capitale statale e fossile russo, e le loro logiche di imperialismo territoriale ed economico, sono così profondamente integrati che non è chiaro quale sia lo strumento dell’altro. Putin li ha fusi nel suo regime. Ma è un errore vedere il suo regime semplicemente come «capitalismo di stato»: ha concentrato il capitale fossile nelle mani dello stato perché era sia redditizio che strategicamente significativo, ma ha privatizzato quasi tutto il resto, specialmente la fornitura di assistenza sociale come la sanità.

Ideologicamente, il regime di Putin si è evoluto negli ultimi vent’anni. Nel suo primo decennio era per lo più un regime di natura apolitica e tecnocratica, e ha stabilito le basi della sua particolare combinazione di capitalismo di stato e neoliberismo. Nel suo secondo decennio si è sviluppato in una forma molto più ideologicamente nazionalista e autoritaria. Ciò è avvenuto in gran parte in risposta alle proteste democratiche in Russia contro il ritorno al potere di Putin nelle elezioni del 2012. La rivolta di Maidan del 2014 ha intensificato la svolta di Putin verso il nazionalismo anti-rivoluzionario. Ha iniziato a sostenere che lo stato deve difendersi dal cambio di regime. Ha usato queste idee per giustificare l’annessione della Crimea e le cosiddette repubbliche popolari nel Donbas. Ha anche iniziato a coltivare l’idea di un mondo russo, che ha messo in discussione l’esistenza stessa di tutti gli stati post-sovietici, non solo dell’Ucraina. Questo concetto sostiene che i confini della Russia dovrebbero essere quelli del suo vecchio impero ed estendersi a tutti gli stati post-sovietici con grandi popolazioni russofone. Vedendo tutti i russofoni come ostaggi da salvare con l’intervento russo e l’annessione.

Ecco perché mi sono opposto all’annessione della Crimea, nonostante la maggior parte della popolazione l’abbia accolta con favore. Ha creato un precedente di minaccia verso altri paesi. Una volta accettata questa logica, è difficile protestare contro un ulteriore espansionismo russo. Ha messo Putin sulla strada per tentare quello a cui stiamo assistendo oggi: la conquista e la subordinazione dell’Ucraina come una semi-colonia russa.

Durante quest’ultimo decennio, Putin ha anche iniziato a strombazzare i cosiddetti valori tradizionali. Ha resuscitato una tendenza del pensiero conservatore russo del diciannovesimo secolo che vedeva nell’Occidente il terreno di coltura di idee che minacciavano la natura umana divinamente ordinata. Per Putin, lo stato russo è l’ultimo bastione che difende i valori cristiani tradizionali, specialmente la famiglia. Questo lo ha portato a lanciare una crociata propagandistica contro le persone Lgbtq, il femminismo e il liberalismo. Questa crociata non è marginale ma centrale per il suo progetto statale e ideologico. Sperava di usare questi cosiddetti valori tradizionali per coagulare i suoi sostenitori e fornire una risposta alla loro disperazione e senso di vuoto in mezzo alle disuguaglianze della Russia neoliberale.

Al di fuori di questa guerra, quali sono le basi del «putinismo»? Quali le radici del potere di Putin e della sua cerchia politica ed economica?

La prima cosa da dire è che le conseguenze di questa guerra sono già un disastro per l’economia russa: le sanzioni stanno distruggendo tutte le strutture dell’economia costruite durante gli anni del «putinismo». Questa guerra è un disastro anche per il grande business.

Se si guarda la struttura delle sanzioni, che toccano i cosiddetti oligarchi – l’élite russa super ricca – ci rendiamo conto che si basano sull’idea che il grande capitale sia politicamente influente in Russia, che la sua pressione possa in qualche modo fermare Putin dal proseguire la guerra. Ma si tratta di un’idea sbagliata: il grande capitale russo non ha radici profonde nella società russa. La struttura portante del capitalismo russo, la burocrazia statale, è relativamente autonoma e politicamente molto più potente del capitale autoctono. Questa guerra mostra perfettamente questo tipo di relazione tra la burocrazia e la classe capitalista in Russia. La classe capitalista non era e non è politicamente determinante, non ha una diretta influenza sul processo decisionale e non aveva e non ha strumenti politici per evitare questa catastrofe.

In Italia siamo abituati a considerare il presidente russo come un prodotto della geopolitica, una reazione alle pressioni occidentali contro la Russia e per questo non riusciamo a comprendere fino in fondo la ragione del suo crescente potere nella società russa. Che sostegno sociale ha realmente Putin? Ci sono differenze di classe fondamentali tra chi sostiene le politiche del suo governo?

Per la maggior parte della società russa, per le diverse classi sociali – dall’alto verso il basso – l’inizio di questa guerra è stato davvero inaspettato. Non si può dire che ci sia stata una vera e propria preparazione ideologica o politica nei confronti della società russa. Il problema è che la maggior parte della società russa non capisce le reali conseguenze di questa guerra per il paese.

Durante i vent’anni di potere di Putin c’è stato un processo crescente di depoliticizzazione della società, la distruzione di tutte le forme di autorganizzazione, di ogni forma di opposizione politica. In questo senso si può dire che il consenso sociale alla guerra sia stato preparato, in termini di assenza di qualsiasi tipo di resistenza dal basso, perché ogni possibilità di tale resistenza era già stata distrutta in precedenza.

Per quanto riguarda altri settori sociali – in particolare la classe operaia e gli altri «senza potere» – cosa pensano di questa guerra, dell’ideologia che la sorregge e della politica economica di Putin?

Nel momento in cui è iniziata la guerra contro l’Ucraina la classe operaia russa era in gran parte disorganizzata, senza la presenza di sindacati combattivi e reali organizzazioni dei lavoratori – che sono estremamente deboli e non rappresentative della maggioranza della classe operaia russa. Anche questo è il risultato dei vent’anni di governo di Putin e ancor prima del cattivo sviluppo del capitalismo russo in epoca sovietica e del sistema politico russo nel suo insieme.

Se quindi possiamo riconoscere l’esistenza di una classe operaia russa dal punto di vista economico e materiale, sul piano politico è del tutto inefficace e assente. Così il modello del capitalismo russo costruito negli ultimi trent’anni, basato sull’enorme disuguaglianza e su bassissime garanzie sociali per lavoratrici e lavoratori, prepara questi stessi lavoratori a essere solo vittime della situazione. La maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici sono vittime silenziose delle conseguenze di questa guerra.

È importante segnalare anche il carattere classista dell’esercito russo: in Ucraina sono già stati inviati migliaia di soldati russi di leva, giovani per lo più provenienti dalle città di provincia molto povere, dai villaggi dove l’unica opportunità per ottenere un lavoro o costruire qualche prospettiva per il futuro è quella di entrare nell’esercito. È evidente guardando le diverse aree di provenienza dell’alto numero di soldati russi uccisi in Ucraina, con un enorme squilibrio tra Mosca e San Pietroburgo da un lato e le regioni più povere della Russia dall’altro. In generale non ci sono molti soldati provenienti dalle grandi città: è un esercito di poveri, di persone provenienti dalla classe operaia che non hanno altre prospettive nella vita se non quella di arruolarsi. E nonostante che in Russia non ci sia ancora la mobilitazione generale della leva, i vertici militari hanno iniziato grandi campagne per reclutare nuovi volontari per l’esercito: il salario che propongono parte da 500 euro al mese per andare in Ucraina e probabilmente morire lì, ma questi 500, a volte anche 1.000 euro, sembrano uno stipendio fantastico per le regioni da cui proviene la maggior parte di questi soldati.

In Europa occidentale abbiamo qualche notizia sui più famosi dissidenti e oppositori del governo russo, ma sappiamo molto poco dei movimenti sociali e dei soggetti collettivi che si oppongono a Putin. Cosa si sta muovendo all’interno della società russa, sia dal punto di vista dell’opposizione politica diretta che di quella sociale e culturale?

Nelle prime due settimane di guerra ci sono state alcune proteste per le strade di Mosca, San Pietroburgo e poche altre grandi città; i principali partecipanti a queste proteste erano studenti, giovani non sostenuti dal resto della società russa. Chi ha manifestato è stato molto coraggioso e la loro iniziativa è stata molto importante perché ha reso visibile il dissenso esistente nella società russa. Purtroppo questi manifestanti erano abbastanza isolati socialmente e dopo l’ondata di brutale repressione del movimento contro la guerra, la resistenza all’aggressione in Ucraina si esprime soprattutto attraverso azioni individuali molto più clandestine: alcune persone di notte fanno dei graffiti, appendono manifesti o firmano delle petizioni collettive; e ancora, ci sono forme particolari e creative di resistenza, per esempio persone che scrivono sulle banconote slogan contro la guerra. Il sentimento contro la guerra c’è ancora e probabilmente sta anche crescendo, ma non è pubblico, non è offensivo, perché si esprime in un’atmosfera di paura: le persone temono di essere arrestate, di perdere il lavoro, di essere espulse dall’università e così via.

Si tratta di una situazione che potrebbe cambiare abbastanza rapidamente, perché la strategia principale del governo russo è stata quella di presentare questa guerra come un’operazione militare speciale molto rapida – come sapete anche il termine «guerra» non viene utilizzato, è persino proibito dalla legge, in base alla quale si rischia di essere arrestati se si descrive questa guerra come tale. Il governo sta cercando di vendere alla società russa la favola di un’operazione limitata nel tempo dopodiché tutto tornerà alla normalità. Per questo viene coperto il numero reale di perdite, che è davvero enorme. A fine aprile il ministero della difesa ammetteva la morte solamente di 1.300 soldati, un numero già molto grande ma decisamente più basso della realtà. Fonti indipendenti contavano già 16 mila soldati russi morti. Se pensiamo che durante gli otto anni di guerra in Afghanistan negli anni Ottanta erano stati uccisi 15 mila soldati russi, lo stesso numero è stato ora raggiunto in due mesi. Sappiamo bene che per l’Unione sovietica la guerra afghana è stata un fattore molto importante nella diffusione della disillusione verso il governo ed ebbe conseguenze importanti nella stessa fine dell’Urss. Penso quindi che non sarà possibile nascondere la reale portata della guerra alla società russa per un lungo periodo.

Prima della guerra quali erano i principali movimenti di opposizione e dissenso in Russia?

Nei due anni precedenti alla guerra, la maggior parte dell’opposizione organizzata era stata distrutta (specialmente i sostenitori di Naval’nyj); per questo ritengo che al momento dell’invasione dell’Ucraina qualsiasi percorso di dissenso e opposizione legale in Russia fosse già impossibile, questa formazione autocratica e repressiva era già presente e molto forte.

Tuttavia solo pochi mesi prima della guerra, nel settembre del 2021, nelle elezioni parlamentari il Partito comunista ha ottenuto ottimi risultati e una crescita del sostegno elettorale, non tanto per il suo programma o per le posizioni della sua leadership, ma perché appariva l’unica opportunità legale per esprimere una forma di protesta contro il governo. Nonostante la leadership del Partito comunista sia quasi completamente allineata con il Cremlino e giochi un ruolo vergognoso nel sostenere e promuovere questa guerra, ci sono alcune persone anche nel Partito comunista russo che si oppongono alla guerra. Quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina solamente alcuni membri del parlamento russo hanno espresso apertamente il loro disaccordo e fatto dichiarazioni contro la guerra e la maggior parte di questi parlamentari erano del Partito comunista.

Per il resto le diverse aree della sinistra russa sono divise rispetto a questa guerra. Da un lato ci sono alcuni gruppi stalinisti che hanno apertamente sostenuto l’invasione con una posizione «antimperialista», perché considerano l’Ucraina uno stato nazista e perché sostengono che questo conflitto è anche contro il capitalismo occidentale e costituisce un’opportunità per una sorta di trasformazione socialista della società. Dall’altro lato esistono gruppi di sinistra antistalinisti e anarchici che si oppongono alla guerra, che hanno giocato un ruolo molto importante nelle mobilitazioni e che continuano la loro attività più o meno in modo clandestino.

Hai appena pubblicato un libro intitolato «Dissidents among Dissidents» (Verso, 2022): qual è l’esperienza storica dei dissidenti di sinistra in Russia?

Penso sia difficile paragonare l’esperienza dei dissidenti ai tempi dell’Unione sovietica e l’opposizione nella Russia di oggi, perché i dissidenti – specialmente i dissidenti socialisti – negli ultimi decenni di esistenza dell’Unione sovietica facevano soprattutto un lavoro intellettuale. Ora la nostra esperienza è diversa, in primo luogo perché il regime attuale non è ovviamente l’Unione sovietica con la sua stabilità e struttura consolidata, ed è basato su una disuguaglianza sociale molto profonda, su una divisione di classe molto evidente. Infatti non c’è un consenso sociale forte per il governo, come invece c’era anche nel periodo finale di esistenza dell’Urss.

Dovremmo imparare dai dissidenti socialisti del passato soprattutto le loro idee politiche, la loro critica verso l’Unione sovietica da una prospettiva marxista e di sinistra. Questa critica è stata molto importante per decostruire l’ideologia dell’élite. Oggi in Russia c’è una miscela ideologica molto eclettica e paradossale di imperialismo, nazionalismo e alcuni elementi di nostalgia sovietica e per questo l’eredità dei dissidenti socialisti ci aiuterà a lavorare e a criticare anche questo tipo di costruzione.

Cosa pensi che succederà nella politica e nella società russa come risultato della guerra in Ucraina? Si apriranno nuove prospettive per le opposizioni e le mobilitazioni potranno tradursi in una forma di soggettività stabile?

Questa guerra è già una sfida molto seria per l’élite russa, una sfida enorme per il modello politico creato da Putin, e se dovesse risolversi in una sconfitta aperta della Russia porterà sicuramente a dei cambiamenti nella società. Naturalmente saranno cambiamenti molto complicati, probabilmente una combinazione di alcune mosse all’interno dell’élite e alcune proteste dal basso. E questa combinazione potrebbe portare a una trasformazione della società russa. Le forze che saranno capaci di affrontare la diseguaglianza sociale e rivendicarne la fine potranno giocare sicuramente un ruolo importante in questi cambiamenti.

Negli ultimi anni sembra che le forme di internazionalismo siano quasi scomparse, a parte il sostegno all’esperienza del Rojava e altre iniziative occasionali di solidarietà con le discriminazioni storiche (soprattutto quella palestinese). In particolare qui in Occidente mancano quasi del tutto i rapporti con le esperienze antiliberiste, libertarie e di sinistra delle società post-sovietiche. Su quali basi pensi sia possibile costruire queste relazioni transnazionali?

In primo luogo la sinistra occidentale dovrebbe riconsiderare la sua visione della Russia, perché negli ultimi anni ci sono stati molti esempi di percezione della Russia come paese «antimperialista» o comunque che resiste all’ordine globale dominato dagli Stati Uniti. Si tratta di un modo per giustificare il regime russo, che non considera la natura di classe del paese e il pericolo dell’imperialismo russo per l’insieme della regione, non solo per l’Ucraina. Una visione e un’analisi completamente fuori strada e che va combattuta. Una visione, oltretutto, che non guarda all’esistenza e alla rappresentanza di paesi come l’Ucraina, gli stati baltici o altre repubbliche post-sovietiche che non attirano interesse e comprensione da parte della sinistra occidentale. Così ora, in Ucraina, dobbiamo considerare quella in corso come una lotta per l’autodeterminazione e l’autodifesa del paese, che dovrebbe essere sostenuta dalla sinistra esattamente come si è sostenuto il Rojava o la resistenza palestinese. Il fatto che il governo ucraino non sia progressista non dovrebbe essere una ragione per negare il sostegno alla loro autodeterminazione. Se vogliamo fare un’analogia, l’attuale direzione della resistenza palestinese da parte di Hamas non è decisamente progressista e di sinistra, ma questo non è un motivo per rifiutare di sostenerla.

Quale pensi possa essere il terreno comune di una relazione tra le sinistre antiliberiste e i movimenti sociali progressisti dell’Europa orientale e occidentale? Che tipo di iniziativa pensi si debba costruire per aiutare questi movimenti a incontrarsi?

In questo momento dobbiamo fare ogni sforzo per aiutare i e le rifugiate ucraine in Europa. Allo stesso tempo va sostenuta apertamente la sinistra ucraina – che esiste anche se è molto piccola – e il movimento russo contro la guerra. La sinistra radicale in Occidente può avere in questo senso un ruolo molto più attivo.

*Piero Maestri, attivista, è stato redattore di «Guerra&Pace» ed è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre, 2013). Ilya Budraitskis è autore di Dissidents among Dissidents. Ideology, Politics and the Left in Post-Soviet Russia (Verso, 2022). Militante della sinistra radicale russa, scrive regolarmente di politica, arte, cinema e filosofia per le riviste «e-flux», «openDemocracy», «Jacobin» e altre. Insegna alla Scuola di scienze sociali ed economiche di Mosca e all’Istituto di arte contemporanea di Mosca

«Non basta un po’ di pioggia per uscire dall’emergenza»

Intervista ad Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr – di Serena Tarabini, «Il manifesto».

La differenza fra la meteorologia e la climatologia sta nel fatto che mentre la prima studia le caratteristiche «momentanee» del tempo atmosferico in una determinata area geografica, la seconda fa la «media» degli eventi che si svolgono in un arco di tempo di minimo trenta anni. Clima e meteo non vanno quindi confusi e i climatologi stessi sono sempre molto cauti nell’attribuzione degli eventi estremi, ma sono sempre i climatologi a verificare se e quando eventi come il caldo e la siccità che stanno caratterizzando l’Italia e l’Europa in questo momento abbiano dei precedenti, per trarne le relative deduzioni. Ne discutiamo con il professor Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr e docente di fisica del clima e sostenibilità ambientale.

Caldo e siccità, queste condizioni meteorologiche come si inseriscono nelle dinamiche climatiche attuali?

Noi climatologi stiamo osservando che gli eventi siccitosi della portata di quello che ci sta colpendo negli ultimi 10-15 anni hanno assunto una frequenza più alta, quindi sta effettivamente cambiando qualcosa. La stessa cosa riguarda le ondate di calore del Mediterraneo: eravamo abituati a una circolazione che si dirige da ovest verso est, il ben noto anticiclone delle Azzorre, ma da qualche tempo a questa parte ci troviamo alle prese con gli anticicloni africani: quindi anche la circolazione atmosferica è cambiata.

Come si correlano questi due fenomeni con l’innalzamento della temperatura globale dovuto all’intensificarsi dell’effetto serra?

I gas serra intrappolano il calore che la terra dovrebbe riemettere verso l’esterno, e quindi è facile da collegare all’aumento della temperatura media globale. Il problema è che cambiando i flussi di calore e di aria si modificano gli estremi all’interno dei quali questa temperatura varia, in particolar modo nel Mediterraneo. È un rapporto causa-effetto meno diretto, ma lo vediamo dai nostri modelli: la maggior immissione di anidride carbonica unita al minore assorbimento causata dalla diminuzione della copertura vegetale ha amplificato quella che è la circolazione equatoriale-tropicale verso nord: è chiaro che poi quando arriva l’anticiclone di tipo africano, fa più caldo e non piove.

E per quanto riguarda la crisi idrica?

Dal mio punto di vista la causa principale di questa siccità non risiede tanto nell’estate, ma nell’inverno. La riserva idrica per la primavera e l’estate è rappresentata dalla fusione della neve che si è accumulata in inverno. La neve cade a quote sempre più alte: se prima nevicava a 1.400 metri di altitudine ed ora nevica solo fino ai 1.600, quei duecento metri che una volta erano neve, ora sono pioggia, e li abbiamo persi, perché la pioggia si accumula meno e finisce velocemente in mare: la vera ricchezza idrica è la neve che si fonde lentamente. Questo è un fattore molto importante che ci fa anche capire come non bastano quindici giorni di pioggia, quando arriverà, per risolvere quattro mesi di siccità. Anche perché il problema di questi anticicloni è duplice: quando si ritirano, lasciano la strada aperta alle correnti fredde, che quando arrivano su un mare e un suolo surriscaldati possono provocare disastri, come le alluvioni.

Quali sono gli scenari possibili in caso di pioggia?

L’evaporazione intensa dovuta al calore determina piogge violente che quando arrivano trovano un terreno secco che assorbe pochissimo; la maggior parte dell’acqua, quindi, scivola in superficie e in poco tempo, tramite i fiumi, arriva in mare. Anche che se i millimetri di pioggia caduti fossero gli stessi di un anno non siccitoso, gli effetti sul territorio sono diversi, perché la qualità dell’acqua, diciamo così, è diversa.

Quanto è destinata a durare questa situazione anticiclonica?

Mentre in alcune parti del mondo, come l’Africa, è possibile fare previsioni stagionali accurate, sul nostro Mediterraneo è più difficile perché la circolazione a queste latitudini è più variabile e la geografia fisica più complessa; posso però dire che le previsioni stagionali della temperatura estiva formulate dal Centro meteorologico europeo sono sempre più affidabili: secondo gli ultimi dati forniti, il caldo estremo durerà fino ad agosto, con temperature al di sopra della media; per media mi riferisco a quella dell’ultimo periodo, non certo a quella pre-industriale, in tal caso non ci sarebbe da preoccuparsi.

C’è il rischio di un altro 2003?

Non solo, rispetto al 2003 abbiamo addirittura una situazione ancora più siccitosa; nel 2003 fu eccezionale la durata dell’onda di calore, da maggio a settembre, ecco siamo su quei livelli. E comunque in autunno quando questo anticiclone finalmente e ne andrà, rischiamo dei disastri notevolissimi: arrivano delle piogge violente, il mare è caldo e fornisce molto vapore acqueo ed energia all’atmosfera, i territori sono provati dalla siccità e dall’eccesso di calore: ci sono tutti i termini dell’equazione dei disastri che ho utilizzato in un mio libro per descrivere gli impatti dei cambiamenti climatici: quell’interazione di fattori che incide sull’esposizione al rischio nostra e delle nostre risorse. Dobbiamo stare attenti anche da qui a dieci giorni per quanto riguarda il nord Italia, quando è possibile che l’anticiclone cominci a cedere e che arrivino dei temporali violenti.

Lei è un osservatore non solo dei fenomeni fisici ma anche di quelli politico-sociali: che «clima» si respira?

Come sempre si rischia di agire solo in maniera emergenziale. Se non agiamo sulla base di un ragionamento a lungo termine, almeno trenta anni, questo problema non lo risolviamo. Queste ondate di calore e siccità ce le ritroveremo anche nel futuro: con la temperatura non si torna indietro, tant’è vero che l’obiettivo degli accordi di Parigi è il contenimento dell’aumento al di sotto di 1,5 gradi. Adesso siamo attorno a 1,2, una situazione ancora gestibile: dobbiamo evitare di andare oltre, perché diventerebbe ingestibile. Il che non può succedere se andiamo avanti con lo stesso modello di sviluppo. Questa situazione ci fa vedere che la possibilità di adattamento ha dei limiti: una volta superati, non c’è più nulla da fare. La dinamica naturale è lenta, ma inesorabile. Prendiamo per esempio i ghiacciai alpini: quello che vediamo è che la loro estensione e il loro volume non sono in equilibrio con la temperatura attuale, questo vuol dire che stanno ancora rispondendo al riscaldamento degli ultimi trenta-quaranta anni; i nostri modelli ci mostrano che se anche la temperatura rimanesse quella di adesso, i nostri ghiacciai alpini perderebbero il 30% della superficie e del volume. Se continuiamo come se nulla fosse, dal 30% passiamo al 95 e a quel punto è chiaro che non c’è adattamento possibile. Dobbiamo agire ora per vedere i risultati fra 20 anni. Pensiamoci quando parliamo di tornare alle centrali a carbone.

fonte: https://ilmanifesto.it/non-basta-un-po-di-pioggia-per-uscire-dallemergenza

Israele condanna Khalida Jarrar a due anni di carcere

di Michele Giorgio – «il manifesto», 2 marzo 2021

«È una odissea, gli israeliani hanno condannato a due anni mia mamma. Sarà scarcerata il 30 ottobre, ha già scontato un anno e quattro mesi». Suha ci spiegava ieri i nuovi sviluppi del caso di sua madre, la parlamentare Khalida Jarrar, che secondo la sentenza emessa ieri dai giudici della corte militare israeliana di Ofer, è colpevole di «incitamento alla violenza» e di appartenenza a una organizzazione illegale, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, la principale formazione della sinistra palestinese. «Mia madre – ha aggiunto – ha soltanto denunciato l’occupazione israeliana e chiesto libertà per il nostro popolo». Dirigente di spicco del Fplp, storica attivista dei diritti delle donne palestinesi, Jarrar venne arrestata a Ramallah il 31 ottobre 2019, ma da alcuni anni entra ed esce dal carcere. Prima della condanna di ieri ha trascorso diversi periodi di detenzione amministrativa, il carcere senza processo. Il suo primo arresto risale al 1989. Oltre a Jarrar, sette deputati palestinesi eletti sono attualmente detenuti in Israele. Secondo la ong Addameer, a gennaio erano 4.400 i prigionieri politici palestinesi, tra cui 37 donne e 160 minori.

#Palestina #Israele

https://ilmanifesto.it/israele-condanna-khalida-jarrar-a-due-anni-di-carcere/

«Governo e regione ammettono le loro responsabilità nella mancata zona rossa a Bergamo e Brescia. Questione chiusa? Per niente.» di Massimo Alberti – Radio Popolare, 7 aprile 2020

Con l'ammissione dell'assessore lombardo Gallera, all'indomani dell'ammissione del presidente del consiglio Conte, si chiude il cerchio. Governo e regione Lombardia, dopo aver giocato per settimane allo scaricabarile, ora si assumono in tutta fretta le loro responsabilità: forse per insabbiare velocemente una questione scomoda, forse perché per entrambi è arrivato il richiamo a evitare polemiche ora. Le responsabilità della mancata creazione della zona rossa a Bergamo e Brescia ormai sono chiare ed equamente divise. Il presidente del consiglio Conte ha avuto sul tavolo due volte, il 3 e il 5 marzo, la raccomandazione del comitato tecnico scientifico di chiudere Nembro, Alzano, Orzinuovi, ma il governo non lo ha fatto perché voleva che a farlo fosse la regione. L'assessore Gallera ha riconosciuto oggi che la regione poteva comunque agire, ma non lo ha fatto perché voleva che a chiudere fosse il governo. Tutto a posto? Per nulla. Resta la domanda: perchè nessuno abbia voluto prendere una decisione politica evidentemente ritenuta scomoda. Perchè in quelle aree è concentrato un denso tessuto produttivo. E il terzo soggetto coinvolto in questa vicenda, lo ammette candidamente: «eravamo contrari a fare una zona rossa come a Codogno» dice il capo di confindustria Lombardia Bonometti, in una surreale intervista a «The Post Internazionale» – che per prima ha sollevato il caso – in cui attribuisce ai tanti allevamenti il veicolo di contagio. «Ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse. Non si poteva fermare la produzione» ribadisce Bonometti. Il prezzo sul terreno lo hanno pagato quasi 5.000 morti e trecentomila contagiati, che di quella decisione sono in parte la conseguenza.

«I furbetti del decretino», parte due di Massimo Alberti – Radio Popolare, 1° aprile 2020

Da Federacciai, a Confindustria, la tregua è durata poco: è bastato qualche dato di rallentamento dei contagi, conseguente però a un numero minore di tamponi nel cuore del contagio in Lombardia, che le associazioni datoriali sono tornate alla carica per chiedere a breve la riapertura di tutte le imprese, nonostante le raccomandazioni delle autorità sanitarie, e le notizie dai territori poco confortanti – «siamo attrezzati per un'emergenza di settimane», ha detto a Radio Popolare il direttore sanitario dell' Ospedale Civile di Brescia. Ma quante aziende non essenziali hanno realmente chiuso, a una settimana dal secondo decreto del governo che correggeva parzialmente il primo decreto, riscritto nottetempo su impulso di Confindustria? Poche, troppo poche, continuano a dire tutti i numeri. Partiamo da un dato, quello degli spostamenti: gli statistici dell'Univesità di Bergamo che curano il progetto Covid19Mobility hanno calcolato un calo degli spostamenti del 7%, dalla settimana precedente al 22 marzo, a quella successiva. «Ci aspettavamo di più», spiega Francesco Finazzi, uno dei curatori del progetto. «Il grosso degli spostamenti riguarda il lavoro, lo si capisce dal crollo nei fine settimana» sottolinea ancora Finazzi. E considerato che nel fine settimana le filiere essenziali continuano a funzionare, chi resta in strada mettendo a rischio sé stesso, i propri cari, i propri colleghi, sono SOPRATTUTTO i lavoratori costretti a produrre per aziende non essenziali.

Non che il secondo decreto abbia molto cambiato le cose: la Cgil Lombardia stima che su 1,61 milioni di lavoratori potenzialmente attivi grazie alla prima versione del decreto, con la seconda il numero è sceso a 1,58 milioni, cioè: trentamila in meno, cioè lo 0,018%. Molte aziende, dove è presente il sindacato, hanno già chiuso grazie agli accordi interni – spesso sostenuti da scioperi – e le situazioni più opache restano nelle imprese più piccole dove il sindacato non c'è, il che rende più difficile applicare anche quel «controllo» da parte delle organizzazioni sindacali previsto dall'ultima versione del decreto. Il fenomeno che si è scatenato dopo il nuovo elenco di aziende consentite, seguito all'accordo del 25 marzo tra governo e Cgil-Cisl-Uil, è duplice: da un lato la corsa a cambiare il codice Ateco per «rientrare» nelle attività permesse, dall'altro l'autocertificazione che consente di produrre fino a quando un controllo della prefettura non sancisce il contrario. «Rassegna Sindacale» fa un elenco impressionante di chi ci sta provando, contando proprio sul fatto che in una situazione di caos come quella attuale, le prefetture difficilmente riusciranno a controllare. Le aziende che hanno mandato l'autocertificazione sono decine di migliaia: 12.000 in Veneto, 10.000 in Emilia Romagna, 2.500 in Friuli. In Lombardia, nelle due province dove la situazione è più drammaatica, 1.800 a Bergamo e quasi 3.000 a Brescia. Tra le tante richieste che Confindustria ha inoltrato al governo, c’è anche quella relativa alla garanzia di liquidità per le imprese: quindi soldi pubblici. Ma ce n'è davvero bisogno? La domanda se l'è posta la fondazione Claudio Sabatini, in uno studio basato sui dati delle camere di commercio, sulle imprese con oltre 50 dipendenti.

«Guardando alla sola liquidità immediata, cioè, i denari costituiti da depositi bancari, denaro in cassa, assegni, che le imprese potrebbero immediatamente spendere, la disponibilità è di oltre 25 miliardi per la metalmeccanica, oltre 32 per le imprese sindacalizzate dalla Filctem, quasi 2 per il set-ore cartaio. A cui si aggiungono quasi 80 miliardi delle altre attività, per un totale di quasi 140 miliardi» sottolinea lo studio che si conclude con una considerazione, e una domanda dei curatori Matteo Gaddi e Nadia Garbellini: «Il mondo dell’impresa dispone quindi ampiamente di risorse, qualora volesse fare la sua parte sostenendo in maniera solidale le specifiche situazioni di difficoltà. Dottor Boccia, siamo propri sicuri che le imprese italiane versino in una situazione di liquidità talmente drammatica da dover chiedere altri soldi al governo?».

«I furbetti del decretino» di Massimo Alberti – Radio Popolare, 24 marzo 2020

Il problema delle tante persone in circolazione, resta indissolubilmente legato al lavoro non essenziale: ormai, negarlo significa negare l'evidenza. Secondo uno studio della fondazione Sabatini, il 40,3% dei lavoratori «consentiti» dal decreto del governo, è in realtà impiegato in filiere non essenziali. Andando a riempire strade e mezzi pubblici.

Sono 4.5 milioni le unità lavorative che non rientrano in attività fondamentali

http://www.fondazionesabattini.it/ricerche-1/ricerca-coronavirus-e-lavoro

Gli statistici dell'università di Bergamo dell'«Osservatorio sulla mobilità COVID-19» monitorano il tracciamento delle celle telefoniche – quelle con cui la regione Lombardia allarmò sul 40% dei lombardi in movimento: rilevano che gli spostamenti crollano, e aumenta la distanza tra le persone, il sabato e la domenica. E cioè, quando chiudono le imprese non essenziali, considerato che la stragrande maggioranza dei servizi essenziali funziona anche il fine settimana.

Il decreto di Conte ha maglie larghe: consente, ad esempio, di stare aperto a chi produce profumi, con i codici Ateco del settore chimico, denuncia il sindacato. E quel che sta chiudendo, chiude grazie all'azione dei lavoratori: la camera del lavoro di Milano stima che la Fiom ha stipulato accordi nel 90% delle aziende metalmeccaniche in cui è presente: circa 300 aziende, che corrispondono a cinquantamila lavoratori. Per la prima volta, quindi, il numero dei lavoratori in circolazione a Milano per lavori non essenziali cala, passando dai trecentomila (stima confermata anche dai dati messi a disposizione dalla camera di commercio) a circa duecentocinquantamila. A conferma che la grossa partita si gioca sul settore metalmeccanico, e nelle Pmi.

È in questo contesto che arrivano i «furbetti del decretino», ovvero chi non potrebbe produrre, ma ci prova. Alcune delle tante segnalazioni a Radio Popolare in queste ore, ahinoi da mantenere sufficientemente vaghe per garantire l'anonimato ai lavoratori. Siamo nel milanese, in un'azienda lontanamente legata alla filiera alimentare, tanto lontana che i codici non rientrano nelle attività fondamentali, ma è già partita l'autocertificazione al prefetto, contando che i controlli difficilmente arriveranno. Stesso discorso per un'azienda metalmeccanica del Bresciano: anche qui, niente codici «autorizzati», ma autocertificazione che «tanto finché non ci controllano possiamo lavorare, tenete d'occhio alle mail», il messaggio agli operai. Una apposito circolare del ministero dell'interno emessa oggi, si limita ad invitare i prefetti a verificare le situazioni di autocertificazione «con celerità». Ma senza sanzioni. E nel nuovo decreto che comporterà ulteriori restrizioni, non è previsto nulla di più: i militari a disposizione dei prefetti controlleranno gli spostamenti, non le imprese.

C'è poi chi prova a scaricare sui dipendenti il rischio d'impresa: in aziende che dovranno chiudere, i sindacati sono già intervenuti per inviare diffide che impediscano la messa in ferie forzata fuori dai termini contrattuali. In altri casi, e qui parliamo di cooperative sociali, dal datore di lavoro non c'è stata alcuna informazione sulla possibilità di prendere i congedi, invitando alle ferie per risparmiare sui costi.

«'Chiudete Bergamo e Brescia'. L'Iss lo chiedeva già il 2 marzo ma è stato ignorato» di Massimo Alberti – Radio Popolare, 28 marzo 2020

Una zona rossa nei comuni focolaio di Bergamo e Brescia. È la richiesta che il consiglio di sanità ha portato al tavolo tecnico scientifico, che affianca il governo, già il 2 marzo, all'alba della diffusione del contagio. Una richiesta ufficiale mai presa in considerazione. Da lì in poi il virus è dilagato nelle due province, con migliaia di contagiati e di morti. Medici, sindaci, cittadini lo dicono da tempo: non chiudere le aree focolaio nelle province di Bergamo e Brescia è stato un errore determinante. La conferma arriva da un documento ufficiale che lo metteva nero su bianco, ma è stato ignorato. La notizia compare per la prima volta sul quotidiano online «The Post Internazionale» il 25 marzo.

https://www.tpi.it/cronaca/alzano-lombardo-nembro-iss-2-marzo-chiusura-coronavirus-bergamo-20200326573710/

Nell'ambito di un reportage da Bergamo, la giornalista Francesca Nava rivela che una nota tecnica dell’Istituto superiore di sanità chiedeva che nei comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e in quello bresciano di Orzinuovi, venisse creata una zona rossa, come quella di Codogno. Quindi aree isolate e chiusura delle imprese.

Sabato 28 marzo la giornalista Nuri Fatolahzadeh del «Giornale Di Brescia» dà conto della conferma da parte dell'Iss di questo carteggio interno al comitato tecnico scientifico, dove siedono rappresentanti delle regioni, della Protezione civile, del ministero della Salute, quindi del governo.

Erano i giorni di «Milano non si ferma», «Bergamo non si ferma», quelli degli aperitivi e degli inviti a non fermare il commercio, quelli in cui Confindustria premeva per non fermare le produzioni nonostante fosse già chiaro che in quelle aree il contagio si stesse allargando senza un freno: e la nota tecnico-scientifica diceva chiaramente questo: si deve chiudere. Non a caso la nota sottolineava la vicinanza di importanti centri urbani, come ulteriore fattore di rischio. «Tpi» aggiunge che questa nota viene ulteriormente integrata il 5 marzo, ma in questo caso non c'è conferma di chi l'abbia vista. La nota del 2 marzo, però, sul tavolo del comitato tecnico scientifico c'era: lo conferma sempre a «Tpi» la Protezione civile.

https://www.tpi.it/cronaca/coronavirus-inchiesta-nava-tpi-risposta-protezione-civile-video-20200326574123/

«L'abbiamo valutata ma non si poteva chiudere tutto. È stato già doloroso fare quelle zone rosse che abbiamo fatto» sono le risposte preoccupanti che Agostino Miozzo della Protezione civile dà alle domande di Veronica Di Benedetto Montaccini. «Stavamo valutando e poi è stato deciso il lockdown nazionale» aggiunge Miozzo. Il cosiddetto lockdown nazionale arriva però solo l'8 marzo e, come sappiamo, non chiude le imprese e prende prime blande restrizioni comuni a tutto il territorio, solo sui comportamenti individuali, ignorando le fabbriche e la situazione specifica di zone di fatto focolaio. Un primo decreto sulle imprese arriverà solo il 22 marzo, quello definitivo il 25. Nel frattempo nelle province di Bergamo e Brescia i morti ufficiali sono oltre 2000, ma secondo i sindaci è una cifra ampiamente sottostimata.

Vanno ringraziate le colleghe di «Tpi» e del «Giornale di Brescia» per l'eccellente lavoro.