Dissidenza e guerra Ilya Budraitskis, Piero Maestri – da «Jacobin Italia» n. 15

Ilya Budraitskis, esponente della sinistra radicale russa, ricostruisce la natura imperialista dell’aggressione all’Ucraina e racconta un paese nel quale sono tornate egemoni le vecchie idee della destra più reazionaria. Fin dai primi giorni dell’aggressione all’Ucraina ci sono state prese di posizione nette e iniziative contro la guerra da parte di gruppi dell’opposizione russa. L’importanza di queste iniziative va oltre l’attuale momento di guerra e ci offre la possibilità di guardare cosa accade in Russia «in basso a sinistra». Ilya Budraitskis, attivista della sinistra radicale russa e autore del libro Dissidents among Dissidents uscito all’inizio del 2022 per la casa editrice Verso, è un testimone importante e interessante di questa prospettiva.

In Italia, ma anche in Europa occidentale, siamo abituati a guardare la Russia da una prospettiva geopolitica, cioè attraverso il suo rapporto con le altre potenze (Stati Uniti, Europa, Cina). Di conseguenza leggiamo le politiche dei governi russi solo in funzione di queste relazioni. Come vivono i dissidenti e gli oppositori politici di Putin questa lettura?

Penso che dovremmo parlare dell’attuale guerra, delle ragioni dell’invasione russa dell’Ucraina non solo in termini di geopolitica globale ma anche tenendo conto delle sue radici nei trent’anni di Russia post-sovietica, dell’evoluzione della coscienza dell’elité russa e della complicata relazione tra Russia e Ucraina. Se guardiamo al risultato immediato dell’invasione russa salta all’occhio come la crescente militarizzazione dell’Europa orientale o la possibile adesione alla Nato di paesi come la Finlandia o la Svezia siano risultati immediati della decisione delle autorità russe e non sembra una buona strategia per impedire la crescita della Nato. Come si vede è problematico leggere questa invasione in termini geopolitici, anche perché non si può dire che ci fosse una chiara strategia geopolitica, cioè rivolta alle relazioni internazionali nel loro insieme.

Quali sono le caratteristiche fondamentali della Federazione Russa dal punto di vista economico, politico e internazionale?

La Russia è sicuramente una potenza imperialista. L’imperialismo non è solo una logica puramente economica del capitalismo. C’è un’altra dimensione dell’imperialismo, che David Harvey chiama «logica territoriale». La Russia è soggetta a entrambe le logiche e sono profondamente intrecciate. Le imprese statali russe come Gazprom sono legate a questa logica territoriale. Hanno bisogno di assicurarsi il territorio per l’estrazione e gli accordi politici con gli stati per la spedizione del loro petrolio e gas attraverso gli oleodotti. Il capitale statale e fossile russo, e le loro logiche di imperialismo territoriale ed economico, sono così profondamente integrati che non è chiaro quale sia lo strumento dell’altro. Putin li ha fusi nel suo regime. Ma è un errore vedere il suo regime semplicemente come «capitalismo di stato»: ha concentrato il capitale fossile nelle mani dello stato perché era sia redditizio che strategicamente significativo, ma ha privatizzato quasi tutto il resto, specialmente la fornitura di assistenza sociale come la sanità.

Ideologicamente, il regime di Putin si è evoluto negli ultimi vent’anni. Nel suo primo decennio era per lo più un regime di natura apolitica e tecnocratica, e ha stabilito le basi della sua particolare combinazione di capitalismo di stato e neoliberismo. Nel suo secondo decennio si è sviluppato in una forma molto più ideologicamente nazionalista e autoritaria. Ciò è avvenuto in gran parte in risposta alle proteste democratiche in Russia contro il ritorno al potere di Putin nelle elezioni del 2012. La rivolta di Maidan del 2014 ha intensificato la svolta di Putin verso il nazionalismo anti-rivoluzionario. Ha iniziato a sostenere che lo stato deve difendersi dal cambio di regime. Ha usato queste idee per giustificare l’annessione della Crimea e le cosiddette repubbliche popolari nel Donbas. Ha anche iniziato a coltivare l’idea di un mondo russo, che ha messo in discussione l’esistenza stessa di tutti gli stati post-sovietici, non solo dell’Ucraina. Questo concetto sostiene che i confini della Russia dovrebbero essere quelli del suo vecchio impero ed estendersi a tutti gli stati post-sovietici con grandi popolazioni russofone. Vedendo tutti i russofoni come ostaggi da salvare con l’intervento russo e l’annessione.

Ecco perché mi sono opposto all’annessione della Crimea, nonostante la maggior parte della popolazione l’abbia accolta con favore. Ha creato un precedente di minaccia verso altri paesi. Una volta accettata questa logica, è difficile protestare contro un ulteriore espansionismo russo. Ha messo Putin sulla strada per tentare quello a cui stiamo assistendo oggi: la conquista e la subordinazione dell’Ucraina come una semi-colonia russa.

Durante quest’ultimo decennio, Putin ha anche iniziato a strombazzare i cosiddetti valori tradizionali. Ha resuscitato una tendenza del pensiero conservatore russo del diciannovesimo secolo che vedeva nell’Occidente il terreno di coltura di idee che minacciavano la natura umana divinamente ordinata. Per Putin, lo stato russo è l’ultimo bastione che difende i valori cristiani tradizionali, specialmente la famiglia. Questo lo ha portato a lanciare una crociata propagandistica contro le persone Lgbtq, il femminismo e il liberalismo. Questa crociata non è marginale ma centrale per il suo progetto statale e ideologico. Sperava di usare questi cosiddetti valori tradizionali per coagulare i suoi sostenitori e fornire una risposta alla loro disperazione e senso di vuoto in mezzo alle disuguaglianze della Russia neoliberale.

Al di fuori di questa guerra, quali sono le basi del «putinismo»? Quali le radici del potere di Putin e della sua cerchia politica ed economica?

La prima cosa da dire è che le conseguenze di questa guerra sono già un disastro per l’economia russa: le sanzioni stanno distruggendo tutte le strutture dell’economia costruite durante gli anni del «putinismo». Questa guerra è un disastro anche per il grande business.

Se si guarda la struttura delle sanzioni, che toccano i cosiddetti oligarchi – l’élite russa super ricca – ci rendiamo conto che si basano sull’idea che il grande capitale sia politicamente influente in Russia, che la sua pressione possa in qualche modo fermare Putin dal proseguire la guerra. Ma si tratta di un’idea sbagliata: il grande capitale russo non ha radici profonde nella società russa. La struttura portante del capitalismo russo, la burocrazia statale, è relativamente autonoma e politicamente molto più potente del capitale autoctono. Questa guerra mostra perfettamente questo tipo di relazione tra la burocrazia e la classe capitalista in Russia. La classe capitalista non era e non è politicamente determinante, non ha una diretta influenza sul processo decisionale e non aveva e non ha strumenti politici per evitare questa catastrofe.

In Italia siamo abituati a considerare il presidente russo come un prodotto della geopolitica, una reazione alle pressioni occidentali contro la Russia e per questo non riusciamo a comprendere fino in fondo la ragione del suo crescente potere nella società russa. Che sostegno sociale ha realmente Putin? Ci sono differenze di classe fondamentali tra chi sostiene le politiche del suo governo?

Per la maggior parte della società russa, per le diverse classi sociali – dall’alto verso il basso – l’inizio di questa guerra è stato davvero inaspettato. Non si può dire che ci sia stata una vera e propria preparazione ideologica o politica nei confronti della società russa. Il problema è che la maggior parte della società russa non capisce le reali conseguenze di questa guerra per il paese.

Durante i vent’anni di potere di Putin c’è stato un processo crescente di depoliticizzazione della società, la distruzione di tutte le forme di autorganizzazione, di ogni forma di opposizione politica. In questo senso si può dire che il consenso sociale alla guerra sia stato preparato, in termini di assenza di qualsiasi tipo di resistenza dal basso, perché ogni possibilità di tale resistenza era già stata distrutta in precedenza.

Per quanto riguarda altri settori sociali – in particolare la classe operaia e gli altri «senza potere» – cosa pensano di questa guerra, dell’ideologia che la sorregge e della politica economica di Putin?

Nel momento in cui è iniziata la guerra contro l’Ucraina la classe operaia russa era in gran parte disorganizzata, senza la presenza di sindacati combattivi e reali organizzazioni dei lavoratori – che sono estremamente deboli e non rappresentative della maggioranza della classe operaia russa. Anche questo è il risultato dei vent’anni di governo di Putin e ancor prima del cattivo sviluppo del capitalismo russo in epoca sovietica e del sistema politico russo nel suo insieme.

Se quindi possiamo riconoscere l’esistenza di una classe operaia russa dal punto di vista economico e materiale, sul piano politico è del tutto inefficace e assente. Così il modello del capitalismo russo costruito negli ultimi trent’anni, basato sull’enorme disuguaglianza e su bassissime garanzie sociali per lavoratrici e lavoratori, prepara questi stessi lavoratori a essere solo vittime della situazione. La maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici sono vittime silenziose delle conseguenze di questa guerra.

È importante segnalare anche il carattere classista dell’esercito russo: in Ucraina sono già stati inviati migliaia di soldati russi di leva, giovani per lo più provenienti dalle città di provincia molto povere, dai villaggi dove l’unica opportunità per ottenere un lavoro o costruire qualche prospettiva per il futuro è quella di entrare nell’esercito. È evidente guardando le diverse aree di provenienza dell’alto numero di soldati russi uccisi in Ucraina, con un enorme squilibrio tra Mosca e San Pietroburgo da un lato e le regioni più povere della Russia dall’altro. In generale non ci sono molti soldati provenienti dalle grandi città: è un esercito di poveri, di persone provenienti dalla classe operaia che non hanno altre prospettive nella vita se non quella di arruolarsi. E nonostante che in Russia non ci sia ancora la mobilitazione generale della leva, i vertici militari hanno iniziato grandi campagne per reclutare nuovi volontari per l’esercito: il salario che propongono parte da 500 euro al mese per andare in Ucraina e probabilmente morire lì, ma questi 500, a volte anche 1.000 euro, sembrano uno stipendio fantastico per le regioni da cui proviene la maggior parte di questi soldati.

In Europa occidentale abbiamo qualche notizia sui più famosi dissidenti e oppositori del governo russo, ma sappiamo molto poco dei movimenti sociali e dei soggetti collettivi che si oppongono a Putin. Cosa si sta muovendo all’interno della società russa, sia dal punto di vista dell’opposizione politica diretta che di quella sociale e culturale?

Nelle prime due settimane di guerra ci sono state alcune proteste per le strade di Mosca, San Pietroburgo e poche altre grandi città; i principali partecipanti a queste proteste erano studenti, giovani non sostenuti dal resto della società russa. Chi ha manifestato è stato molto coraggioso e la loro iniziativa è stata molto importante perché ha reso visibile il dissenso esistente nella società russa. Purtroppo questi manifestanti erano abbastanza isolati socialmente e dopo l’ondata di brutale repressione del movimento contro la guerra, la resistenza all’aggressione in Ucraina si esprime soprattutto attraverso azioni individuali molto più clandestine: alcune persone di notte fanno dei graffiti, appendono manifesti o firmano delle petizioni collettive; e ancora, ci sono forme particolari e creative di resistenza, per esempio persone che scrivono sulle banconote slogan contro la guerra. Il sentimento contro la guerra c’è ancora e probabilmente sta anche crescendo, ma non è pubblico, non è offensivo, perché si esprime in un’atmosfera di paura: le persone temono di essere arrestate, di perdere il lavoro, di essere espulse dall’università e così via.

Si tratta di una situazione che potrebbe cambiare abbastanza rapidamente, perché la strategia principale del governo russo è stata quella di presentare questa guerra come un’operazione militare speciale molto rapida – come sapete anche il termine «guerra» non viene utilizzato, è persino proibito dalla legge, in base alla quale si rischia di essere arrestati se si descrive questa guerra come tale. Il governo sta cercando di vendere alla società russa la favola di un’operazione limitata nel tempo dopodiché tutto tornerà alla normalità. Per questo viene coperto il numero reale di perdite, che è davvero enorme. A fine aprile il ministero della difesa ammetteva la morte solamente di 1.300 soldati, un numero già molto grande ma decisamente più basso della realtà. Fonti indipendenti contavano già 16 mila soldati russi morti. Se pensiamo che durante gli otto anni di guerra in Afghanistan negli anni Ottanta erano stati uccisi 15 mila soldati russi, lo stesso numero è stato ora raggiunto in due mesi. Sappiamo bene che per l’Unione sovietica la guerra afghana è stata un fattore molto importante nella diffusione della disillusione verso il governo ed ebbe conseguenze importanti nella stessa fine dell’Urss. Penso quindi che non sarà possibile nascondere la reale portata della guerra alla società russa per un lungo periodo.

Prima della guerra quali erano i principali movimenti di opposizione e dissenso in Russia?

Nei due anni precedenti alla guerra, la maggior parte dell’opposizione organizzata era stata distrutta (specialmente i sostenitori di Naval’nyj); per questo ritengo che al momento dell’invasione dell’Ucraina qualsiasi percorso di dissenso e opposizione legale in Russia fosse già impossibile, questa formazione autocratica e repressiva era già presente e molto forte.

Tuttavia solo pochi mesi prima della guerra, nel settembre del 2021, nelle elezioni parlamentari il Partito comunista ha ottenuto ottimi risultati e una crescita del sostegno elettorale, non tanto per il suo programma o per le posizioni della sua leadership, ma perché appariva l’unica opportunità legale per esprimere una forma di protesta contro il governo. Nonostante la leadership del Partito comunista sia quasi completamente allineata con il Cremlino e giochi un ruolo vergognoso nel sostenere e promuovere questa guerra, ci sono alcune persone anche nel Partito comunista russo che si oppongono alla guerra. Quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina solamente alcuni membri del parlamento russo hanno espresso apertamente il loro disaccordo e fatto dichiarazioni contro la guerra e la maggior parte di questi parlamentari erano del Partito comunista.

Per il resto le diverse aree della sinistra russa sono divise rispetto a questa guerra. Da un lato ci sono alcuni gruppi stalinisti che hanno apertamente sostenuto l’invasione con una posizione «antimperialista», perché considerano l’Ucraina uno stato nazista e perché sostengono che questo conflitto è anche contro il capitalismo occidentale e costituisce un’opportunità per una sorta di trasformazione socialista della società. Dall’altro lato esistono gruppi di sinistra antistalinisti e anarchici che si oppongono alla guerra, che hanno giocato un ruolo molto importante nelle mobilitazioni e che continuano la loro attività più o meno in modo clandestino.

Hai appena pubblicato un libro intitolato «Dissidents among Dissidents» (Verso, 2022): qual è l’esperienza storica dei dissidenti di sinistra in Russia?

Penso sia difficile paragonare l’esperienza dei dissidenti ai tempi dell’Unione sovietica e l’opposizione nella Russia di oggi, perché i dissidenti – specialmente i dissidenti socialisti – negli ultimi decenni di esistenza dell’Unione sovietica facevano soprattutto un lavoro intellettuale. Ora la nostra esperienza è diversa, in primo luogo perché il regime attuale non è ovviamente l’Unione sovietica con la sua stabilità e struttura consolidata, ed è basato su una disuguaglianza sociale molto profonda, su una divisione di classe molto evidente. Infatti non c’è un consenso sociale forte per il governo, come invece c’era anche nel periodo finale di esistenza dell’Urss.

Dovremmo imparare dai dissidenti socialisti del passato soprattutto le loro idee politiche, la loro critica verso l’Unione sovietica da una prospettiva marxista e di sinistra. Questa critica è stata molto importante per decostruire l’ideologia dell’élite. Oggi in Russia c’è una miscela ideologica molto eclettica e paradossale di imperialismo, nazionalismo e alcuni elementi di nostalgia sovietica e per questo l’eredità dei dissidenti socialisti ci aiuterà a lavorare e a criticare anche questo tipo di costruzione.

Cosa pensi che succederà nella politica e nella società russa come risultato della guerra in Ucraina? Si apriranno nuove prospettive per le opposizioni e le mobilitazioni potranno tradursi in una forma di soggettività stabile?

Questa guerra è già una sfida molto seria per l’élite russa, una sfida enorme per il modello politico creato da Putin, e se dovesse risolversi in una sconfitta aperta della Russia porterà sicuramente a dei cambiamenti nella società. Naturalmente saranno cambiamenti molto complicati, probabilmente una combinazione di alcune mosse all’interno dell’élite e alcune proteste dal basso. E questa combinazione potrebbe portare a una trasformazione della società russa. Le forze che saranno capaci di affrontare la diseguaglianza sociale e rivendicarne la fine potranno giocare sicuramente un ruolo importante in questi cambiamenti.

Negli ultimi anni sembra che le forme di internazionalismo siano quasi scomparse, a parte il sostegno all’esperienza del Rojava e altre iniziative occasionali di solidarietà con le discriminazioni storiche (soprattutto quella palestinese). In particolare qui in Occidente mancano quasi del tutto i rapporti con le esperienze antiliberiste, libertarie e di sinistra delle società post-sovietiche. Su quali basi pensi sia possibile costruire queste relazioni transnazionali?

In primo luogo la sinistra occidentale dovrebbe riconsiderare la sua visione della Russia, perché negli ultimi anni ci sono stati molti esempi di percezione della Russia come paese «antimperialista» o comunque che resiste all’ordine globale dominato dagli Stati Uniti. Si tratta di un modo per giustificare il regime russo, che non considera la natura di classe del paese e il pericolo dell’imperialismo russo per l’insieme della regione, non solo per l’Ucraina. Una visione e un’analisi completamente fuori strada e che va combattuta. Una visione, oltretutto, che non guarda all’esistenza e alla rappresentanza di paesi come l’Ucraina, gli stati baltici o altre repubbliche post-sovietiche che non attirano interesse e comprensione da parte della sinistra occidentale. Così ora, in Ucraina, dobbiamo considerare quella in corso come una lotta per l’autodeterminazione e l’autodifesa del paese, che dovrebbe essere sostenuta dalla sinistra esattamente come si è sostenuto il Rojava o la resistenza palestinese. Il fatto che il governo ucraino non sia progressista non dovrebbe essere una ragione per negare il sostegno alla loro autodeterminazione. Se vogliamo fare un’analogia, l’attuale direzione della resistenza palestinese da parte di Hamas non è decisamente progressista e di sinistra, ma questo non è un motivo per rifiutare di sostenerla.

Quale pensi possa essere il terreno comune di una relazione tra le sinistre antiliberiste e i movimenti sociali progressisti dell’Europa orientale e occidentale? Che tipo di iniziativa pensi si debba costruire per aiutare questi movimenti a incontrarsi?

In questo momento dobbiamo fare ogni sforzo per aiutare i e le rifugiate ucraine in Europa. Allo stesso tempo va sostenuta apertamente la sinistra ucraina – che esiste anche se è molto piccola – e il movimento russo contro la guerra. La sinistra radicale in Occidente può avere in questo senso un ruolo molto più attivo.

*Piero Maestri, attivista, è stato redattore di «Guerra&Pace» ed è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre, 2013). Ilya Budraitskis è autore di Dissidents among Dissidents. Ideology, Politics and the Left in Post-Soviet Russia (Verso, 2022). Militante della sinistra radicale russa, scrive regolarmente di politica, arte, cinema e filosofia per le riviste «e-flux», «openDemocracy», «Jacobin» e altre. Insegna alla Scuola di scienze sociali ed economiche di Mosca e all’Istituto di arte contemporanea di Mosca