«Non basta un po’ di pioggia per uscire dall’emergenza»
Intervista ad Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr – di Serena Tarabini, «Il manifesto».
La differenza fra la meteorologia e la climatologia sta nel fatto che mentre la prima studia le caratteristiche «momentanee» del tempo atmosferico in una determinata area geografica, la seconda fa la «media» degli eventi che si svolgono in un arco di tempo di minimo trenta anni. Clima e meteo non vanno quindi confusi e i climatologi stessi sono sempre molto cauti nell’attribuzione degli eventi estremi, ma sono sempre i climatologi a verificare se e quando eventi come il caldo e la siccità che stanno caratterizzando l’Italia e l’Europa in questo momento abbiano dei precedenti, per trarne le relative deduzioni. Ne discutiamo con il professor Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr e docente di fisica del clima e sostenibilità ambientale.
Caldo e siccità, queste condizioni meteorologiche come si inseriscono nelle dinamiche climatiche attuali?
Noi climatologi stiamo osservando che gli eventi siccitosi della portata di quello che ci sta colpendo negli ultimi 10-15 anni hanno assunto una frequenza più alta, quindi sta effettivamente cambiando qualcosa. La stessa cosa riguarda le ondate di calore del Mediterraneo: eravamo abituati a una circolazione che si dirige da ovest verso est, il ben noto anticiclone delle Azzorre, ma da qualche tempo a questa parte ci troviamo alle prese con gli anticicloni africani: quindi anche la circolazione atmosferica è cambiata.
Come si correlano questi due fenomeni con l’innalzamento della temperatura globale dovuto all’intensificarsi dell’effetto serra?
I gas serra intrappolano il calore che la terra dovrebbe riemettere verso l’esterno, e quindi è facile da collegare all’aumento della temperatura media globale. Il problema è che cambiando i flussi di calore e di aria si modificano gli estremi all’interno dei quali questa temperatura varia, in particolar modo nel Mediterraneo. È un rapporto causa-effetto meno diretto, ma lo vediamo dai nostri modelli: la maggior immissione di anidride carbonica unita al minore assorbimento causata dalla diminuzione della copertura vegetale ha amplificato quella che è la circolazione equatoriale-tropicale verso nord: è chiaro che poi quando arriva l’anticiclone di tipo africano, fa più caldo e non piove.
E per quanto riguarda la crisi idrica?
Dal mio punto di vista la causa principale di questa siccità non risiede tanto nell’estate, ma nell’inverno. La riserva idrica per la primavera e l’estate è rappresentata dalla fusione della neve che si è accumulata in inverno. La neve cade a quote sempre più alte: se prima nevicava a 1.400 metri di altitudine ed ora nevica solo fino ai 1.600, quei duecento metri che una volta erano neve, ora sono pioggia, e li abbiamo persi, perché la pioggia si accumula meno e finisce velocemente in mare: la vera ricchezza idrica è la neve che si fonde lentamente. Questo è un fattore molto importante che ci fa anche capire come non bastano quindici giorni di pioggia, quando arriverà, per risolvere quattro mesi di siccità. Anche perché il problema di questi anticicloni è duplice: quando si ritirano, lasciano la strada aperta alle correnti fredde, che quando arrivano su un mare e un suolo surriscaldati possono provocare disastri, come le alluvioni.
Quali sono gli scenari possibili in caso di pioggia?
L’evaporazione intensa dovuta al calore determina piogge violente che quando arrivano trovano un terreno secco che assorbe pochissimo; la maggior parte dell’acqua, quindi, scivola in superficie e in poco tempo, tramite i fiumi, arriva in mare. Anche che se i millimetri di pioggia caduti fossero gli stessi di un anno non siccitoso, gli effetti sul territorio sono diversi, perché la qualità dell’acqua, diciamo così, è diversa.
Quanto è destinata a durare questa situazione anticiclonica?
Mentre in alcune parti del mondo, come l’Africa, è possibile fare previsioni stagionali accurate, sul nostro Mediterraneo è più difficile perché la circolazione a queste latitudini è più variabile e la geografia fisica più complessa; posso però dire che le previsioni stagionali della temperatura estiva formulate dal Centro meteorologico europeo sono sempre più affidabili: secondo gli ultimi dati forniti, il caldo estremo durerà fino ad agosto, con temperature al di sopra della media; per media mi riferisco a quella dell’ultimo periodo, non certo a quella pre-industriale, in tal caso non ci sarebbe da preoccuparsi.
C’è il rischio di un altro 2003?
Non solo, rispetto al 2003 abbiamo addirittura una situazione ancora più siccitosa; nel 2003 fu eccezionale la durata dell’onda di calore, da maggio a settembre, ecco siamo su quei livelli. E comunque in autunno quando questo anticiclone finalmente e ne andrà, rischiamo dei disastri notevolissimi: arrivano delle piogge violente, il mare è caldo e fornisce molto vapore acqueo ed energia all’atmosfera, i territori sono provati dalla siccità e dall’eccesso di calore: ci sono tutti i termini dell’equazione dei disastri che ho utilizzato in un mio libro per descrivere gli impatti dei cambiamenti climatici: quell’interazione di fattori che incide sull’esposizione al rischio nostra e delle nostre risorse. Dobbiamo stare attenti anche da qui a dieci giorni per quanto riguarda il nord Italia, quando è possibile che l’anticiclone cominci a cedere e che arrivino dei temporali violenti.
Lei è un osservatore non solo dei fenomeni fisici ma anche di quelli politico-sociali: che «clima» si respira?
Come sempre si rischia di agire solo in maniera emergenziale. Se non agiamo sulla base di un ragionamento a lungo termine, almeno trenta anni, questo problema non lo risolviamo. Queste ondate di calore e siccità ce le ritroveremo anche nel futuro: con la temperatura non si torna indietro, tant’è vero che l’obiettivo degli accordi di Parigi è il contenimento dell’aumento al di sotto di 1,5 gradi. Adesso siamo attorno a 1,2, una situazione ancora gestibile: dobbiamo evitare di andare oltre, perché diventerebbe ingestibile. Il che non può succedere se andiamo avanti con lo stesso modello di sviluppo. Questa situazione ci fa vedere che la possibilità di adattamento ha dei limiti: una volta superati, non c’è più nulla da fare. La dinamica naturale è lenta, ma inesorabile. Prendiamo per esempio i ghiacciai alpini: quello che vediamo è che la loro estensione e il loro volume non sono in equilibrio con la temperatura attuale, questo vuol dire che stanno ancora rispondendo al riscaldamento degli ultimi trenta-quaranta anni; i nostri modelli ci mostrano che se anche la temperatura rimanesse quella di adesso, i nostri ghiacciai alpini perderebbero il 30% della superficie e del volume. Se continuiamo come se nulla fosse, dal 30% passiamo al 95 e a quel punto è chiaro che non c’è adattamento possibile. Dobbiamo agire ora per vedere i risultati fra 20 anni. Pensiamoci quando parliamo di tornare alle centrali a carbone.
fonte: https://ilmanifesto.it/non-basta-un-po-di-pioggia-per-uscire-dallemergenza