«I furbetti del decretino», parte due di Massimo Alberti – Radio Popolare, 1° aprile 2020

Da Federacciai, a Confindustria, la tregua è durata poco: è bastato qualche dato di rallentamento dei contagi, conseguente però a un numero minore di tamponi nel cuore del contagio in Lombardia, che le associazioni datoriali sono tornate alla carica per chiedere a breve la riapertura di tutte le imprese, nonostante le raccomandazioni delle autorità sanitarie, e le notizie dai territori poco confortanti – «siamo attrezzati per un'emergenza di settimane», ha detto a Radio Popolare il direttore sanitario dell' Ospedale Civile di Brescia. Ma quante aziende non essenziali hanno realmente chiuso, a una settimana dal secondo decreto del governo che correggeva parzialmente il primo decreto, riscritto nottetempo su impulso di Confindustria? Poche, troppo poche, continuano a dire tutti i numeri. Partiamo da un dato, quello degli spostamenti: gli statistici dell'Univesità di Bergamo che curano il progetto Covid19Mobility hanno calcolato un calo degli spostamenti del 7%, dalla settimana precedente al 22 marzo, a quella successiva. «Ci aspettavamo di più», spiega Francesco Finazzi, uno dei curatori del progetto. «Il grosso degli spostamenti riguarda il lavoro, lo si capisce dal crollo nei fine settimana» sottolinea ancora Finazzi. E considerato che nel fine settimana le filiere essenziali continuano a funzionare, chi resta in strada mettendo a rischio sé stesso, i propri cari, i propri colleghi, sono SOPRATTUTTO i lavoratori costretti a produrre per aziende non essenziali.

Non che il secondo decreto abbia molto cambiato le cose: la Cgil Lombardia stima che su 1,61 milioni di lavoratori potenzialmente attivi grazie alla prima versione del decreto, con la seconda il numero è sceso a 1,58 milioni, cioè: trentamila in meno, cioè lo 0,018%. Molte aziende, dove è presente il sindacato, hanno già chiuso grazie agli accordi interni – spesso sostenuti da scioperi – e le situazioni più opache restano nelle imprese più piccole dove il sindacato non c'è, il che rende più difficile applicare anche quel «controllo» da parte delle organizzazioni sindacali previsto dall'ultima versione del decreto. Il fenomeno che si è scatenato dopo il nuovo elenco di aziende consentite, seguito all'accordo del 25 marzo tra governo e Cgil-Cisl-Uil, è duplice: da un lato la corsa a cambiare il codice Ateco per «rientrare» nelle attività permesse, dall'altro l'autocertificazione che consente di produrre fino a quando un controllo della prefettura non sancisce il contrario. «Rassegna Sindacale» fa un elenco impressionante di chi ci sta provando, contando proprio sul fatto che in una situazione di caos come quella attuale, le prefetture difficilmente riusciranno a controllare. Le aziende che hanno mandato l'autocertificazione sono decine di migliaia: 12.000 in Veneto, 10.000 in Emilia Romagna, 2.500 in Friuli. In Lombardia, nelle due province dove la situazione è più drammaatica, 1.800 a Bergamo e quasi 3.000 a Brescia. Tra le tante richieste che Confindustria ha inoltrato al governo, c’è anche quella relativa alla garanzia di liquidità per le imprese: quindi soldi pubblici. Ma ce n'è davvero bisogno? La domanda se l'è posta la fondazione Claudio Sabatini, in uno studio basato sui dati delle camere di commercio, sulle imprese con oltre 50 dipendenti.

«Guardando alla sola liquidità immediata, cioè, i denari costituiti da depositi bancari, denaro in cassa, assegni, che le imprese potrebbero immediatamente spendere, la disponibilità è di oltre 25 miliardi per la metalmeccanica, oltre 32 per le imprese sindacalizzate dalla Filctem, quasi 2 per il set-ore cartaio. A cui si aggiungono quasi 80 miliardi delle altre attività, per un totale di quasi 140 miliardi» sottolinea lo studio che si conclude con una considerazione, e una domanda dei curatori Matteo Gaddi e Nadia Garbellini: «Il mondo dell’impresa dispone quindi ampiamente di risorse, qualora volesse fare la sua parte sostenendo in maniera solidale le specifiche situazioni di difficoltà. Dottor Boccia, siamo propri sicuri che le imprese italiane versino in una situazione di liquidità talmente drammatica da dover chiedere altri soldi al governo?».