Storia minuta

Il partigiano “Rensu u Longu”

La mia storia nella Resistenza è legata a filo doppio con Renzo Rossi. Nell’agosto del 1944 mi aggregai al gruppo partigiano di Girò (n.d.r.: Pietro Gerolamo Marcenaro di Vallecrosia (IM), detto anche Gireu), che operava nella zona di Negi (n.d.r.: molto più vicina a Seborga, é Frazione di Perinaldo). Dove godevamo anche dell’appoggio di Umberto Sequi a Vallebona e di Giuseppe Bisso a Seborga; tutti e due membri del CLN di Bordighera. Negi era il punto di contatto tra le varie formazioni partigiane che operavano nella zona, tra queste, quelle sotto il comando di Cekoff (n.d.r.:Mario Alborno di Bordighera) e di Gino (n.d.r.: Luigi Napolitano di Sanremo, poi, dal dicembre di quell'anno vice comandante della V^ Brigata d'Assalto Partigiana Garibaldi “Luigi Nuvoloni”). Facevo da staffetta tra Negi e Vallebona. A settembre 1944 insieme a Renzo Rossi partecipai all’incontro con Vittò (n.d.r.: Giuseppe Vittorio Guglielmo, in quel momento comandante della V^ Brigata , da dicembre comandante della II^ Divisione Garibaldi “Felice Cascione”). Ci accompagnò Confino, maresciallo dei Carabinieri che aveva aderito alla Resistenza. Vittò investì formalmente Renzo Rossi del compito di organizzare, per la nostra zona, il SIM (Servizio Informazioni Militare) e la SAP : io fui nominato suo agente e collaboratore. In novembre mi aggregai al battaglione di Gino Napolitano a Vignai, ma dopo alcune operazioni di collegamento tra Vallebona e il comando di Vignai, il comando mi richiamò ad operare nel Gruppo Sbarchi di Vallecrosia. Nell’estate 1944 i servizi segreti americani avevano inviato sulla costa una rete di informatori, capeggiati da Gino Punzi. Dovendo tornare in Francia, per attraversare le linee Gino Punzi si avvalse della collaborazione di un passeur, dal quale, poiché era passato al soldo dei tedeschi, durante il viaggio venne ucciso. Il comandante tedesco si infuriò perché avrebbe voluto catturare vivo il Gino. Sul suo cadavere furono rinvenuti dei documenti, dai quali i tedeschi vennero a conoscenza del fatto che sarebbero stati inviati altri agenti e telegrafisti alleati. I tedeschi predisposero una trappola e quando arrivò il telegrafista “Eros” lo catturarono ferendolo. Si avvalsero di lui per trasmettere falsi messaggi al comando alleato di Nizza. Con questi falsi messaggi fu richiesto l’invio di un’altra missione: la missione “Leo”. La missione andò a rotoli con il ferimento di “Leo”, che venne nascosto nella cantina di casa mia. I tedeschi rastrellarono tutta la zona cercando “Leo”; “visitarono” anche la mia casa: sulla porta rimasero le impronte dei chiodi degli scarponi di quando sfondarono l’ingresso a calci. Ma non cercarono in cantina, si limitarono ad arraffare del cibo dalla cucina. Con Renzo Rossi nascondemmo tutti i documenti del SIM e del CNL nel mio giardino, preparandoci al trasferimento di “Leo” in Francia. Il Gruppo Sbarchi Vallecrosia aveva frattanto predisposto una barca. Renzo Rossi con Lotti avevano preavvisato i bersaglieri della necessità di effettuare l’imbarco quanto prima possibile. La collaborazione dei bersaglieri fu determinante per tutte le operazioni del Gruppo Sbarchi. Il sergente Bertelli comandava un gruppo di bersaglieri a Collasgarba – sopra Nervia di Ventimiglia – e aveva manifestato la volontà di aderire alla Resistenza. Fu avvicinato dai fratelli Biancheri, detti Lilò, per stabilire le modalità della diserzione, quando il plotone fu distaccato alla difesa costiera giusto sulla costa di Vallecrosia in prossimità del bunker alla foce del Verbone. I Lilò convinsero allora i bersaglieri a non disertare, ma ad operare dall’interno per consentire ed agevolare le nostre operazioni. Alla data convenuta, in pieno giorno trasferimmo “Leo” a Vallecrosia, facendolo sedere sulla canna della bicicletta di Renzo. In pieno giorno, perché approfittammo di un furioso bombardamento. Le strade erano deserte, solo granate che esplodevano da tutte le parti. Ricoverammo “Leo” in casa di Achille (n.d.r.: Achille Lamberti di Vallecrosia, “Andrea”), aspettando la notte. Al momento opportuno ci trasferimmo sul lungomare; il soldato tedesco di guardia, come al solito, era stato addormentato da Achille con del sonnifero fornito dal dr. Marchesi (del CLN di Bordighera e con varie responsabilità in seno alla Resistenza), laureato in chimica. I bersaglieri ci aiutarono a mettere in acqua la barca e a caricare “Leo” ferito. Cominciammo a remare, ma, dopo poche centinaia di metri, la barca cominciò ad imbarcare acqua. Non potevamo tornare indietro. Mentre io e “Rosina” (Luciano Mannini) remavamo, “Leo” e Renzo si misero di buona lena a gottare, con una sassola che, per puro caso, avevamo portato con noi. Riuscimmo a tenere il mare e ad arrivare al porto di Monaco. Con la pila facemmo i soliti segnali, ma non ricevemmo alcuna risposta; entrammo nel porto e accostammo alla banchina. Chiamammo una ronda di passaggio, che ci portò al comando di polizia, dove chiedemmo di informare Milou, l’agente di collegamento. Arrivarono gli inglesi e “Leo” fu finalmente ricoverato al Pasteur di Nizza. Anche io e “Rosina” ci facemmo medicare il palmo delle mani piagate dal remare. Il nostro ritorno fu programmato subito con il motoscafo di Giulio “Corsaro” Pedretti e di Cesar, con il quale si dovevano recuperare anche alcuni prigionieri alleati; ma il motoscafo in mare aperto andò in panne e non ne volle sapere di riavviarsi. Eravamo in balia delle onde: Renzo Rossi, Pedretti e Cesar sotto un telo, al chiarore di una lampada, rabberciarono alla meglio il motore. Quasi albeggiava e la missione fu annullata perché ormai troppo tardi. Sulla spiaggia di Vallecrosia il Gruppo Sbarchi attese invano con i 5 piloti. I piloti vennero trasferiti in Francia nei giorni successivi da Girò e Achille. Io, Renzo Rossi, Achille Lamberti e Girò ritornammo in un'altra occasione dalla Francia con un carico di armi. Per sbarcare dovemmo attendere il segnale dalla riva, ma, come altre volte, non arrivò alcun segnale. Sbarcammo proprio davanti alla postazione dei bersaglieri, vicino al bunker. Pochi giorni dopo, senza Achille, che rimase a dirigere il Gruppo a Vallecrosia, effettuai con Girò un’altra traversata, accompagnando “Plancia” (n.d.r.: Renato Dorgia) a prendere armi e materiale. Il ritorno lo effettuammo con la scorta di una vedetta francese, che accompagnò il motoscafo di Pedretti. Vi furono momenti di apprensione perché da bordo della vedetta si udì distintamente il rombo del motore di un motoscafo tedesco; i nemici non si accorsero della nostra presenza e passarono oltre. Trasbordammo sul motoscafo e sul canotto gli uomini e il materiale delle missioni “Bartali” e “Serpente”, composte da agenti addestrati al sabotaggio. Nelle operazioni di trasbordo alcuni caddero in mare e recuperarli nel buio non fu cosa facile, dovendosi osservare il silenzio assoluto. Attendemmo i segnali convenuti da riva. Anche quella volta nessun segnale. Gli ordini erano di annullare tutto, ma Girò accompagnò ugualmente a terra tutta la missione, mentre io tornai a bordo della vedetta, e nel buio pesto riuscì ad individuare il tratto di spiaggia dinanzi a casa sua. Le difese di quel tratto di costa erano così composte: un bunker alla foce del torrente Borghetto, uno nei pressi della foce del Verbone, un altro quasi alla foce del Nervia. Tra il bunker del Borghetto e quello del Verbone, era tutto un campo di mine, eccetto, giusto alla metà tra i due bunker, un passaggio largo meno di un metro, dalla battigia fino al rio Rattaconigli. Sbarcarono a Rattaconigli e superarono il campo minato attraverso quel sentiero. Quella sera dal bunker di Vallecrosia fino alla foce del Nervia era tutto un pullulare di tedeschi e fascisti. Ci aspettavano. La fortuna fu dalla nostra.

Renzo Biancheri, “Rensu u Longu”, in GRUPPO SBARCHI VALLECROSIA < ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia – Comune di Vallecrosia (IM) – Provincia di Imperia – Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM) > di Giuseppe Mac Fiorucci

Virgilio Mago e poeta

Storia e leggenda avvolgono la vita di Publio Virgilio Marone a Napoli, il poeta latino che tra sacro e profano fu amato come Virgilio Mago dal popolo e dai notabili, da Posillipo fino al centro della città partenopea. Al Medioevo si fa risalire la credenza popolare di Virgilio stregone buono, più comunemente ritenuto uomo saggio, in grado di proteggere e aiutare la città con talismani, sortilegi e incantesimi avendo ereditato poteri dagli dei, per cui si pensa che nel XII secolo a Napoli fossero ancora vive credenze pagane. Egli frequentò a Napoli la scuola di Sirone, aderì poi al neopitagorismo, studiò quindi la natura e si avvicinò al culto di Cerere e Proserpina. Pare che poi fosse riuscito ad appropriarsi di un libro di negromanzia dalla tomba del filosofo Chironte , in una città sotterranea all’interno del monte Barbaro situata tra Baia e il lago d’Averno, addentrandosi nei misteri di vita e morte, riuscendo ad apprendere le scienze occulte, i rituali magici per effettuare guarigioni ed esorcizzare gli spiriti malvagi, difendere la città e provvedere ai suoi bisogni . Addirittura fece i primi esperimenti di magia a Roma per cui fu imprigionato per ordine dell’imperatore Augusto, ma con i compagni di ventura magicamente volò via su una barca che aveva disegnato sul muro esterno della prigione, giungendo in Puglia e proseguendo poi per Napoli. Da allora divenne un personaggio leggendario, caro all’ immaginario popolare che lo rese quasi immortale perché di fatto il ritrovamento o la traslazione dei suoi resti sono ancora incerti.

La storia di Virgilio Mago per certi aspetti s’ incrocia con il mito della sirena Parthenope, entrambi protagonisti delle “Leggende napoletane” di Matilde Serao. Napoli, o meglio, l’antica Neapolis fu voluta da Parthenope e nacque proprio dal suo amore per Cimone. Il corpo esanime della sirena si arenò a Megaride, una piccola isola a sé fino al IX sec. a. C. che poi fu collegata alla terraferma e divenne sede del Castel dell’ Ovo durante la dominazione normanna del XII secolo. Nei sotterranei del castello ci sono i ruderi della sfarzosa villa del patrizio romano Lucullo (Castrum Lucullarum) , ove soggiornò Virgilio dal 45 al 29 a.C. che in quella quieta bellezza trovò l’ispirazione per scrivere le Bucoliche e quattro libri delle Georgiche e sperimentare le sue arti magiche. “Dopo la poesia di Parthenope, semidia, creatrice, sorge la poesia di Virgilio, creatore, semidio. Noi conosciamo Virgilio, il grande maestro di Dante, ma conosciamo poco di Virgilio Mago….Noi siamo ingrati verso colui che esclama: Illo Virgilium me tempore dulcis alebat Parthenope…Egli era giovane, bello, alto della persona, eretto nel busto, ma camminava con la testa curva e mormorando certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere. Egli abitava sulla sponda del mare dove s’incurva il colle di Posillipo, ma errava ogni giorno nelle campagne che menano a Baia ed a Cuma ; egli errava per le colline che circondano Parthenope, fissando, nella notte, le lucide stelle e parlando loro il suo singolare linguaggio; egli errava sulle sponde del mare, per la via Platamonia, tendendo l’orecchio all’armonia delle onde, quasi che elle dicessero a lui solo parole misteriose. Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia”.

Probabilmente egli entrò in contatto con gli eremiti e i monaci alchimisti, che vivevano a Megaride, e tra scienza e leggenda a lui si riconduce la storia medioevale dell’uovo che, deposto in una caraffa di vetro racchiusa a sua volta in una gabbietta, fu murato nelle fondamenta del castello che appunto prese il nome di “ castello dell’ Ovo” e dal quale dipendevano le sorti dell’isola e dell’intera città, che sarebbero andate in rovina se si fosse rotto. L’uovo era un simbolo noto agli alchimisti, ai filosofi, e soprattutto agli studiosi di esoterismo in quanto comprensivo di due forme perfette cioè del triangolo che rappresenta il divino e la vita, e del cerchio che la protegge. L’uovo cosmico crea, dà origine alla vita e non a caso ricorre anche nel mito di Parthenope e nella nascita di Pulcinella. Quando nel 1370 una violenta tormenta inondò le prigioni del castello ove era rinchiuso il condottiero Ambrogio Visconti che in quell’ occasione pensò di evadere rompendo la caraffa dell’uovo durante la sua precipitosa fuga nei sotterranei, franò proprio l’ala del castello ove era nascosto l’uovo e i generali timori dei napoletani si placarono solo quando la regina Giovanna ne fece ricollocare un altro onde evitare nuove sciagure alla città. Tanti altri furono i prodigi e le magie di Virgilio: la mosca d’oro , cui insufflò la vita per distruggere quelle che invasero la città, la guarigione dei cavalli di Augusto da un morbo sconosciuto, la scoperta di un’acqua miracolosa, la pietra magica che rese pescoso il mare di Napoli, la sanguisuga d’oro per bonificare i pozzi malsani, il cambio di direzione di un vento troppo caldo, l’invenzione di un alfabeto magico, la coltivazione di un giardino di piante medicinali ai piedi di Montevergine e sulla collina di Posillipo, l’uccisione del serpente che aveva divorato tanti bambini del Pendino, la costruzione dei bagni termali a Baia e della lunga galleria della Crypta Neapolitana, opera di leggendari demoni notturni che collegava Neapolis con i porti flegrei e divenne sede di rituali orgiastici.

Virgilio morì a Brindisi il 19 a. C e da sempre si crede che le sue spoglie siano nel colombario di età romana del parco Vergiliano, vicino alla Crypta neapolitana. Forse più probabilmente l’imperatore Augusto, protettore del poeta, gli fece erigere un monumento presso la villa di Vedio Pollione che poi fu distrutto dal mare. Per altre fonti i resti del poeta andarono persi nel Medioevo, secondo altre il re Roberto d’Angiò nel 1326 li fece traslare o murare nel castel dell’Ovo. Per il grammatico Elio Donato la tomba si trovava lungo la via Puteolana, che portava a Pozzuoli, a due miglia dalla città, per lo storico Julius Beloch invece sarebbe nel tempio dedicato al poeta nel boschetto della villa nella Riviera di Chiaia, per altri ancora le due miglia porterebbero verso il Vesuvio, esattamente a san Giovanni a Teduccio. Il culto di Virgilio nel mausoleo del Parco Vergiliano nell’area archeologica di Piedigrotta risale al Trecento. Visitata da personaggi illustri, letterati e potenti signori di ogni epoca storica, citata da Alessandro Dumas , che nel 1835 era a Napoli e dal suo albergo vedeva il sepolcro, e dal marchese De Sade che la visitò nel 1776, di fronte all’entrata pare ci fosse una lapide, posta dai padri lateranensi della vicina badia di Santa Maria di Piedi grotta nel 1554, con l’iscrizione che fuga ogni perplessità : “QUAE CINERIS TUMULO HOC VESTIGIA CONDITUR. OLIM ILLE HOC QUI.CECINIT PASCUA RURA DUCES… (Quali ceneri? Queste sono le vestigia del tumulo. Fu sepolto qui colui che cantò i pascoli, i campi, i condottieri”) e ne seguì un’altra “Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta? Il nome stesso del poeta basterà a fare celebrare il luogo”. All’ interno del tempietto una stele di marmo posta da Eischoff, il bibliotecario della regina di Francia, recita l’epitaffio che Virgilio scrisse prima di morire perché fosse inciso sulla sua tomba:

“MANTUA ME GENUIT, CALABRI RAPUERE, TENET NUNC PARTHENOPE: CECINI PASCUA RURA DUCES (Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, ora mi tiene Napoli: cantai i pascoli, le campagne gli eroi).

In effetti questo antico colombario romano è per tutti la tomba del poeta Virgilio, anche se si dubita della presenza delle sue ceneri; dubbio mai realmente accertato né fugato. Il mausoleo fu visitato dai grandi della letteratura quali Dante, Petrarca, Boccaccio e infine da Leopardi, ignaro che avrebbe riposato vicino a Virgilio.

Dapprima affascinato dalla bellezza mozzafiato dei luoghi e del mare, Leopardi divenne insofferente di quella città che suscitava contrastanti emozioni con le sue innumerevoli contraddizioni, da amare nella sua vitalità, da odiare nelle sue insidie e nell’ invadente e fastidiosa confusione. Nel 1934 fu eretto un imponente monumento al poeta di Recanati proprio nel parco di Piedigrotta, vicino alla galleria di Fuorigrotta e alla stazione di Mergellina, in un angolo nascosto e immerso nel verde che rivedo ancora in un’atmosfera quasi surreale di una calda e silenziosa mattina di agosto provando nuovamente una sorta di muto timore, rispetto reverenziale per quei due grandi della poesia, commossa soggezione di fronte ai loro mausolei e nel ricordo di alcuni versi, patrimonio universale e immortale. Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta?

“Non vi è che un solo Virgilio: quello che la favolosa cronaca delinea nelle ombre della magia, è proprio il poeta. Invero egli non ha avuto che una magia sola: la grandiosa poesia del suo spirito. Nella cronaca è il poeta….È il poeta che cerca ed interroga ogni angolo oscuro della natura, è lui che parla alle stelle tremolanti di raggi nelle notti estive, è lui che ascolta il ritmo del mare, quasi fosse il metro per cui il suo verso scandisce… Virgilio mago è Virgilio poeta. E nulla si sa della sua morte. Come Parthenope, la donna, egli scompare. Il poeta non muore.” Del resto anche “ Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare… È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell’agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore.” (da “Leggende napoletane” di Matilde Serao)

Una città dall’ apparenza ora oziosa e solenne, ora sfacciata e volgare, da scoprire con diverse e contrastanti letture delle sue storie appassionate, vere e mitiche, dolci e tormentate, ironiche e drammatiche, vissute e interpretate, custodite nella memoria di altre generazioni, dimenticate da quelle più recenti. Storie sull’ origine e sulla fine, esorcizzate dalle credenze popolari, da una devozione superstiziosa, da rituali tramandati pigramente, come alibi poco convincenti ai quali poi si finisce col credere quasi per inerzia. Storie troppo straordinarie per essere credibili, unicamente napoletane.

di skikblog.it (http://www.skipblog.it/)

Il Vincetoxicum

Affini ad Oleandro e Pervinche sono le Asclepiadi: talmente correlate da esser state talvolta incluse nella stessa famiglia. Anche in questi casi nuovamente troviamo proprietà pericolose. In molte di queste specie scorre un succo latteo come nelle Euforbie, ed in alcune Composite come la Lattuga.

Questo si nota molto bene nel Physianthus o Arauja sericofera, un rampicante molto diffuso nei giardini di Nizza. Anche il Gomphocarpus fruticosus possiede lo stesso lattice bianco; è una pianta che ho trovato talvolta inselvatichita lungo la strada di Monaco. A questo ordine delle Apocynacee appartiene anche la “Carrion plant”, la pianta che puzza di carogna (Stapelia grandiflora): l'ho coltivata in un angolo ben riparato.

Nel giardino della Mortola sono esposte una dozzina di specie e fra queste una proveniente dalla Sicilia, diventata adulta in pien'aria.

Tutto quanto è stato detto, sebbene sia abbastanza noto, si riferisce alle specie coltivate nel giardino: ma esiste un genere, ed è l'unico europeo, che appartiene alla famiglia delle Asclepiadacee, vale a dire il Vincetoxicum, che disputa ogni palmo di terreno sulle colline al Buxus ed alla Satureia. Il Vincetoxicum hirundinaria abbonda sul Monte Chauve, ma non c'è bisogno di camminare a lungo per incontrarlo poichè cresce frequentemente vicino alla costa come all'ingresso del Vallon de Fleurs, alla periferia di Nizza.

Molte di queste Asclepiadee, se non precisamente velenose, suscitano qualche sospetto su di loro nuocendo agli insetti che trasportano i loro grani di polline. Se si guarda dentro al loro fiore, non si scorgono ne stami né stigma che restano celati, ma si nota una fenditura a forma di cuneo in cui il piede di una farfalla o la proboscide di un ape possono impigliarsi. Se l'insetto avrà avuto abbastanza forza per liberarsi tutto va bene; le sue parti avranno soltanto ricevuto come decorazione un paio di piccole tacche: all'incirca come i corni che un'Orchidea stampa sulla testa di un ape. Una farfalla può avere non meno di una dozzina di questi piccole marchiature incollate al suo piede. Ma un insetto debole, una formica per esempio, non riuscirà a liberarsi nuovamente se il suo arto resta impigliato in una di queste trappole; rimane prigioniera o vi lascia un suo pezzo per sempre. Ho osservato una mosca casalinga lottare vanamente per tentare la fuga.

Quando il baccello di un Vincetoxicum o di un Gomphocarpus si fendono lateralmente, mostrano i semi con lunghi capelli di seta bianca: gli stessi che nell'Oleandro sono color marrone. Ho visto questi fili sericei del frutto del Physianthus utilizzati dalle modiste come ornamento per un cappello da signora. Per chi lo porti deve essere molto difficile fornire una spiegazione sull'origine di questa lanuginosa decorazione: certamente, un botanico resta perplesso davanti ad una simile curiosità.

Questi filamenti di seta assomiglino molto a quelli dei frutti di Salice, ma in quest'ultimo caso spuntano dalla base del seme.

L'Oleandro alimenta il bruco di una bella falena, una di quelle che volano immediatamente prima del tramonto, la Deilephila nerii. Il suo colore è quello della malachite, ed il modello di volo non è facile di descrivere.

Un naturalista di lungo corso Bruyat mi diceva di aver spesso trovato le larve sui cespugli di Oleandro in città, ma io non sono mai stato così fortunato. Dal canto suo, il Sig. Bicknell afferma che si possono raccogliere nella val Nervia in grande quantità queste larve, rese immuni dal veleno dell'Oleandro come gli antidoti del famoso Mitridate Re del Ponto.

Una splendida farfalla del genere Danais è collegata alle Asclepias, piante molto diffuse nei giardini del luogo; un fatto che potrebbe facilitare la naturalizzazione dell'insetto anche in Riviera. I raccoglitori sarebbero in grado di constatarlo nel giro di alcuni anni.

Leggo da qualche parte che la Danais si sarebbe davvero stabilita dalle parti di Napoli, salvo poi scomparire a causa di un inverno severo non molto tempo fa. È curioso il caso delle Danaidee, le cui larve si nutrono di piante così velenose, con profumi così acri e sgradevoli che (secondo Drummond) nessuna delle creature predatrici di farfalle le vuole toccare. Si descrivono anche di gusto niente male (nei due sensi del termine) basandosi sui fastosi disegni e la brillantezza dei colori. È ovvio che più evidentemente spicca la loro livrea, tanto più sicuri esse saranno. Un predatore che abbia assaggiato uno di questi insetti, si suppone che in futuro voglia evitare di ripetere la disgustoso esperienza.

L'oleandro ha una spira di tre foglie in molti dei suoi nodi o giunture: una sezione obliqua del gambo al di sotto del nodo, differentemente maculato, offre oggetto di interessanti osservazioni al microscopio. Uno strano errore in cui si può incorrere a prima vista è la sensazione che la foglia dell'Oleandro non possegga venature.

da Riviera Nature Notes (seconda edizione, Londra, 1903) di George Edward Comerford (traduzione di Alfredo Moreschi)

I mulini silenziosi

Sono stata bene a Prelà, luogo che vedevo per la prima volta. I mulini silenziosi nascosti dietro muri di pietra, gli archi dei ponti con le ombre e le sagome di asini carichi, che sono transitati per centinaia di anni; le pietre, tutte quelle pietre che entrano sempre in contatto con le mie emozioni più profonde. La musica fragorosa dell’acqua che ti segue, ti affianca, ti sorpassa, ti racconta, con affanno, quasi per timore di non essere ascoltata, e allora cattura la luce e si fa catturare dagli sguardi. Luoghi liguri eppure così diversi dai miei territori. Non diversi, solo sconosciuti. Lo sguardo non incontra altro che ulivi. Roverelle, carpini, robinie sembrano stranieri, che faticano non poco per trovarsi uno spazio. Pareti di ulivi a volte perpendicolari. Chiese sperdute, una multitudine, come sentinelle sulle colline, quasi a controllare le valli sottostanti. Gli abitanti come le case, come le chiese e gli ulivi, anelanti alla luce. Una valle come un forziere che racchiude e protegge anziché pietre preziose, piccoli agglomerati attorno ad un campanile, come pecore attorno al pastore. Ovunque guardi scopri manufatti di pietra nei luoghi più difficili da raggiungere. Aggrappati come capre in salita, in precario equilibrio. Sembra un desiderio infinito di raggiungere la cima per godere del sole che così difficilmente raggiunge quello che sta in basso. Ero con Irene. La gioia di essere immersa nel silenzio, nell’argento, nelle pietre affabulatrici, da leggere come libri, nelle sinfonie dell’acqua, ha ridato una forza che temevo perduta alle mie gambe. Ho pensato che doveva essere difficile staccarsi da quei luoghi. A casa invece sono stata investita, ripercorrendoli con il pensiero, da un grumo di malinconia, tristezza, un fastidio di ricordi amari, sconosciuti, ma tangibili. Da cui fuggire, altrove. Avevo letto che la bellezza è un mondo tradito. Che si può trovare solo dove gli uomini la hanno dimenticata.

E forse la bellezza sta nei miei occhi che sanno cercarla.

di Gridellino

Sulla missione imperiese del capitano Bentley

Nell’estate del 1944 tra il CNL Liguria e il comando alleato, venne concordato di inviare un ufficiale di collegamento inglese presso i partigiani dell’estremo ponente ligure.

Con le disposizioni operative del comandante Holdsworth del 6 dicembre 1944 venne incaricato della missione il cap. Robert Bentley con il radiotelegrafista cpl. Millington, ai quali furono assegnate 500.000 lire di allora, per il compimento della missione e per aiutare i Partigiani.

Dapprima tentarono di passare le linee ed entrare in Liguria attraverso i passi alpini, ma il maltempo e l’accresciuta sorveglianza tedesca ne impedirono il risultato.

Visto l’esito positivo di alcuni passaggi effettuati via mare, fu deciso di tentare la medesima strada.

La missione fu rinominata “Chimpanzee”, composta oltre che dal cap. Bentley, dal radiotelegrafista cpl. MacDougal e dal tenente (Mimmo) Domenico Donesi. Dopo un ulteriore rinvio per la preparazione e l’addestramento, sbarcò sulla spiaggia di Vallecrosia il 6 gennaio 1945.

Il tenente Donesi aveva fatto parte della missione Kahneman salpata sempre da Vallecrosia (IM) il 14 dicembre 1944, dopo 3 giorni di attesa di via libera dato dal comandante del distaccamento di bersaglieri di guardia sul litorale, sergente Bertelli, che avvisò per tempo che in quel giorno il suo reparto sarebbe stato impegnato a Ceriana con commilitoni tedeschi.

Dei risultati della missione il comando del 20° distaccamento del N°1 Special Force teneva costantemente informato il comando del servizio informazioni americano (cap. Geoffrey “Jeff” M. T. Jones), anche esso operante a Nizza (lettere OSS del 13 e 30 gennaio 1945).

La missione del cap. Bentley è citata nel dettagliato rapporto del 26 maggio 1945 redatto dal col. McMullen sui risultati delle missioni degli ufficiali di collegamento britannici inviati presso i Partigiani.

Il capitano raccontò anche con le seguenti parole quella sua missione, che aveva già descritto appena finita la guerra ad Italo Calvino in un’intervista per il fondamentale libro sulla Resistenza “L’epopea dell’esercito scalzo” (a cura di Mario Mascia – ed. A.L.I.S.):

Quando le campane di Bordighera [(IM)] suonarono le 23.00, il 6 gennaio del 1945 il gruppo di sbarco composto dal caporale Mac Dougall, Mimmo, Nino e me, era riunito su di un battello pneumatico. Avendo ricevuto dalla spiaggia il segnale di via libera, aiutati da Giulio con il suo battello, ci dirigemmo verso la riva. Alle 23,45 scendemmo sulla spiaggia, non senza esserci bagnati un po’, poichè le onde si infrangevano sulla spiaggia. Dopo aver sgonfiato il battello per consentire a Giulio di riportarlo indietro, raggiungemmo la casamatta dove si supponeva di incontrare Tonino. Dopo aver aspettato 15 minuti senza aver avuto notizie di Tonino, decidemmo di muoverci verso la prima casa sicura, seguendo un sentiero sgomberato all’interno del campo minato (solo di rado abbastanza largo). Arrivammo alla casa alle ore 00.15 e trovammo Tonino che ci aspettava. Il pesante bagaglio venne nascosto e, dopo aver attraversato campi e steccati, la via principale e una buona parte di Bordighera arrivammo alla casa di Bussi, dove trovammo rifugio per la notte. Il 7 gennaio alle 8,15 iniziammo il nostro viaggio verso l’entroterra. lo e Tonino partimmo per primi, seguiti a 100 iarde dal caporale Mac Dougal e da Mimmo. Non avevamo ancora percorso che poche iarde lungo la strada che passammo vicino al primo tedesco, siccome il nostro aspetto non attirò la sua attenzione continuammo il nostro viaggio in qualche modo un po’ più fiduciosi. A metà strada sopra Vallecrosia fummo raggiunti dalla nostra guida che si dimostrò essere il nostro salvatore visto che solo 100 iarde dopo fummo fermati ad un posto di blocco, dove ci furono chiesti i documenti: Mentre la guida mostrava i suoi e distraeva le sentinelle parlando del tempo, noi passammo tranquillamente oltre. Da lì in poi numerosi Gerrys [tedeschi] ci incrociarono facendosi gli affari loro e curandosi poco di noi. A Vallecrosia prendemmo la mulattiera per Negi [Frazione di Perinaldo (IM)] che raggiungemmo alle 03.30. L’8 gennaio alle 4 lasciammo Negi per salire a Monte Bignone, percorrendo la strada militare per Baiardo, che fu evitata, superando alle 14,00 l’ultima postazione nemica che si trovava al cimitero di Baiardo. Ci eravamo più o meno portati al di fuori dalla zona di pericolo.. Alle 6.00 sulla strada per Vignai ci imbattemmo in Curto, il quale aveva sentito della nostra intenzione di arrivare e si trovava temporaneamente in quella zona. Curto si mise immediatamente a disposizione insieme ai suoi uomini. Alle 17,30 completammo l’operazione e raggiungemmo Vignai. Lì incontrai il sergente Henry Harris dell’USAAF che era stato con il maggiore Campbell che riuscì a scappare. Più tardi scoprii che il sergente Harris era stato chiamato da Curto per controllarci ed essere sicuro che fossimo inglesi e non delle spie.

di Giuseppe “Mac” Fiorucci, “Gruppo Sbarchi Vallecrosia”, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia – Comune di Vallecrosia (IM) – Provincia di Imperia – Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM)

P.S.

Il cap. Bentley con il caporale Mac erano accompagnati da Mimmo, Nino (n.d.r.: detto anche “Nino Serretta”, si tratta di Alberto Guglielmi) e Tonino (n.d.r.: Antonio Capacchioni, già capitano dell’Aeronautica Militare), che a Negi si fermarono (n.d.r.: quando si dice la memoria; come qui accennato, Fiorucci ritrovò la copia incompleta della relazione sulla vicenda, fatta in data sconosciuta da “Tonino” al Comando Partigiano; una relazione in cui “Tonino” affermava che era sbarcato dalla Francia molti giorni prima della missione Bentley per prendere contatti con “Gino” (Luigi Napolitano, in quel momento vice comandante della V^ Brigata Partigiana Garibaldi”) e “Curto” in funzione della migliore riuscita della medesima… e che da Negi a Ciabaudo aveva accompagnato lui Bentley e Mac – anzi, in questo scritto di suo pugno, sergente Mc Donald –, e che aveva inizialmente collaborato con Bentley…)..

Il mulo Balilla

Mio nonno ancora negli anni ‘60 utilizzava il mulo per trasportare da Località Ciacca [di Camporosso (IM)] su strada naturalmente mulattiera, ormai scomparsa, il raccolto delle olive.

Il Sindaco di Camporosso certificava il 5 maggio 1961 l’acquisizione di un mulo nero, nato nel 1946, alto 1 metro e 30, di sesso maschile, di nome Balilla, a causa dell’anno di nascita, probabile rigurgito del periodo storico appena trascorso.

Balilla era a tutti gli effetti considerato un componente della famiglia. Docile e buono, di grande lavoro. Aveva solo due periodi di intensa attività: la raccolta delle olive e la vendemmia da Cian de Çà con l’ubva caricata su galocci di legno, già pesanti da vuoti. Uliveto e vigneto erano lontane dalla sua stalla. Per il resto dell’anno riposava.

Si può ben dire che era un lavorante stagionale.

Il suo ricovero era una stalla buia con una luce minima da una piccola finestra. Divideva il suo spazio con veloci conigli e porcellini d’india, che saettavano tra rami scorticati di rami di salice e finocchi selvatici.

Scoprivo in seguito che era importante che il povero Balilla con così tanto tempo da trascorrere in riposo forzato fosse costretto a muoversi per evitare i piccoli quadrupedi mai fermi.

Ho fatto seduta come una principessa sul suo pesante basto, redini in mano al nonno, salite verso l’uliveto, con il naso a respirare gli aromi di timo, lentischi, rosmarini e a seguire i voli degli uccelli disturbati dal nostro incedere sulla mulattiera sdrucciolevole, sotto gli zoccoli che avanzavano faticosamente.

Esperienze lontanissime, perché ero piccola, ma che mi hanno legato in maniera indissolubile al territorio.

di Gridellino

Fragola Doria e Spartaco

… riporto una storia di Resistenza partigiana raccontata nel libro “Con la resistenza nel cuore” di Vittorio Mazzone.

È la storia di un giovane napoletano, Armando Izzo, nato ad Afragola (Na) il 12 giugno 1916. Fece studi classici per poi laurearsi in Giurisprudenza in un clima di esaltazione acritica del regime fin quando fu chiamato alle armi il 6 giugno 1941 e ben presto iniziò a rendersi conto delle chiacchiere di Mussolini “Chiedemmo che significava 1891 e ci spiegarono che era il suo anno di nascita. Incredibile! Eravamo scesi in guerra con un fucile vecchio di cinquant’anni mentre tutti gli altri eserciti già avevano moderni fucili a raffica o a ripetizione”. Capì che la disciplina, il linguaggio e il comportamento degli ufficiali e sottoufficiali si ispiravano al più bieco autoritarismo : “Allora capimmo che c’era un filo ideale che congiungeva il fascismo con l’insegnamento militare: non pensare, eseguire solo gli ordini e fu la rivolta delle coscienze!…. Il fascismo si preoccupò che questa massa di giovani diplomati e laureati lasciata a casa potesse prendere coscienza della situazione del paese per la politica del regime non condividendola. Per cui preferì ingabbiarli nei predetti battaglioni”. I giovani arruolati furono presto impegnati al fronte.

Izzo nel luglio 1941 divenne Caporale, dopo due mesi Sergente e poi entrò nella scuola degli Allievi Ufficiali di Salerno ove studiò con impegno la Topografia che gli servì in seguito come Comandante partigiano. Partecipò alla II Guerra mondiale nella zona di Mentone. Rischiò di essere mandato davanti a un plotone d’esecuzione perché il suo comportamento nei confronti dei soldati era considerato troppo aperto. A Gorbio ricevette l’incarico di Difensore d’ufficio presso il Tribunale militare di guerra della IV Armata che operava a Breil. Sebbene non avesse esperienza, s’impegnò a difendere i suoi assistiti e si rese conto che quei processi erano perlopiù farse per condannare a morte soldati italiani che rivendicavano la loro dignità di uomini e si ribellavano all’ottuso militarismo di tanti Ufficiali e Sottufficiali “Purtroppo capii che i soldati non avevano molti diritti da far valere. Il termine “insubordinazione” trovava largo spazio e commento nel codice penale militare Era un macigno che pesava sempre sullo stomaco dell’inferiore e che il superiore era sempre pronto a infierire sull’inferiore” . Quei soldati non erano affatto delinquenti o nemici della Patria, ma solo dei poveri cristi che per qualche banale errore erano caduti ingenuamente nelle grinfie di qualche superiore invasato, alla ricerca di qualcuno sul quale sfogare proprie frustrazioni; inoltre bastava poco per fare parte dei soggetti ritenuti pericolosi.

Quando fu annunciato l’Armistizio l’8 settembre 1943 il Sottotenente Izzo decise che doveva combattere contro i nazifascisti per liberare l’Italia , e tramite due esponenti della Resistenza francese, partì per l’Italia per raggiungere Cima Marta a 2200 mt di altitudine. Poi con un compaesano e altri ufficiali raggiunse Triora [(IM)] e si unì ai partigiani con il nome “Fragola ( da Afragola) Doria”. Divenne Comandante partigiano della V brigata d’Assalto Luigi Nuvoloni della I Zona Liguria, partecipò a numerose azioni contro i nazifascisti che operarono rastrellamenti, eccidi e devastazioni nell’entroterra ligure cui si opposero interi paesi grazie a donne di ogni età, agli uomini rimasti e a tanti giovani. Partecipò all’occupazione di Pigna a fine agosto 1944 e alla sua difesa nell’ottobre successivo. A dicembre prese il comando della V Brigata che tenne fino alla Liberazione, sostituendo il famoso Vittò, che passò a dirigere la II Divisione “Felice Cascione”. Armando Izzo ottenne la Medaglia d’Argento al Valor Militare. Il 1° maggio 1996 il Comune di Castelvittorio gli ha conferito la cittadinanza onoraria e la sua città natale, Afragola, con solenne cerimonia, il 26 giungo delle stesso anno gli ha consegnato la Medaglia d’Oro al merito della Resistenza.

Il libro con la Resistenza nel cuore” riporta pagine del memoriale di Fragola Doria che ricordano alcune delle pagine più tristi della storia dell’entroterra ligure, come l’eccidio di Gordale, e “Spartaco”, un diciottenne di Isolabona, che come altri giovanissimi aveva combattuto per la Liberazione dai nazifascisti.

“I Tedeschi paventavano uno sbarco alleato in Provenza, nella Francia meridionale, con ripercussioni lungo tutta la riviera fino a noi e quindi la decisione di sbaragliare per sentirsi sicuri nelle zone interessate. Essi intensificarono la difesa costiera. Tre forti colonne tedesche investirono la nostra zona: una, risalendo la Valle Argentina dopo avere distrutto Badalucco, salì fino a distruggere Molini di Triora. Altra colonna risalì la Valle Nervia, danneggiò Castelvittorio e per il passo di Carmo Langan scese per Molini e si congiunse con la prima colonna.

Una terza colonna (tedesca) scende dalla sinistra della valle per Corte e Andagna e da Molini sale a Triora. Tutto è distrutto. I Tedeschi battono il territorio del retroterra di Triora; nulla si salva. I vecchi castagni vengono battuti con il calcio del fucile, temendo che qualche partigiano potesse essere nascosto lì dentro. Ci furono due avvenimenti incredibili, di cui uno rasenta la pazzia. Stavamo sotto una roccia in quattro con Spartaco e altri due Garibaldini. Eravamo nella zona di Loreto; avanti a noi un sentiero sul quale passavano i Tedeschi alla nostra ricerca. Ci rendevamo conto della nostra situazione disperata. Spartaco mi dice: “Non voglio cadere vivo in mano ai tedeschi, non so gli altri due cosa pensano, tu sei un ufficiale, uccidimi con un colpo di pistola!” Era crollato! Gli dissi che se i Tedeschi ci scovavano, dovevamo cercarne di ucciderne ancora qualcuno prima che ci uccidessero. Gli altri due assentirono. Poi il diluvio. I Tedeschi si ritirarono di fronte all’infuriare della tempesta. Uscimmo dal nascondiglio con l’acqua a ruscelli che scendeva per i sentieri e la mulattiera.Il torrente Argentina era gonfio. Trascorse un minuto ed era come se fossimo in un mare in tempesta. Riparai in un casolare a Cetta. C’era una donna anziana, sola con una ragazza. Ci disse che stava sola e che la nipote aveva famiglia in Francia, con la quale non aveva più potuto comunicare. Appena qualche minuto e poi delle grida: “Arrivano i Tedeschi”. Afferro la giacca ed esco di corsa, ma non ritorno più in quel casolare. La storia è raccontata in “Storia della Resistenza di Imperia”. Spartaco fu bruciato vivo dai Tedeschi sopra Isolabona.” (da “Con la Resistenza nel cuore” di Vittorio Mazzone).

di Maria Cuccaro, skipblog.it

L’Imelde del casello al km 12 della linea ferroviaria Savona Altare

L’Imelde abitava al casello al km 12 della linea Savona Altare. Vi abitava con suo fratello. Erano figli di un operaio venuto a costruire quella linea e poi assunto dalle FS negli anni 30.

Erano di Marzabotto. Mi diceva che i suoi parenti erano stati trucidati dai nazisti e che erano rimasti lì perché non avevano più parenti laggiù.

Era una donna silenziosa, timorosa; risaliva sulla sede ferroviaria i quasi due km che separavano i nostri due caselli e veniva a fare la spesa a Cadibona.

La prima volta che la vidi mi colpì quel suo fare dignitoso, quasi schivo: mi passò accanto ed io la salutai, lei si fermò e mi chiese se ero nuovo di lì; allora le raccontai a mio modo chi ero e da dove venivo. Le chiesi se viveva sola. Lei, stringendo la sua borsa della spesa, mi disse che viveva lì al casello con suo fratello. Mi sorrise l’Imelde e volle che l’andassi a trovare… cosa che feci nei giorni a venire. Non avevano acqua corrente né luce elettrica in casa; illuminava le stanze con il gas del carburo – allora se ne trovava in grande quantità –; fuori nel cortile avevano una pompa manuale per l’acqua con sottostante interrato serbatoio, con la quale riempivano i secchi. La casa era una grande cucina con un grande caminetto: si vedeva che la loro vita si svolgeva tutta lì in quella grande cucina.

Mi venne in mente che quello era sicuramente un retaggio di una cultura del mondo della mezz’aria e bracciantato, grandi cucine condivise e piccole stanze anguste per dormire.

Suo fratello mi guardò con attenzione – avevo 21 anni – volle sapere da dove venivo ed io fui prolifico di racconti ed aneddoti sulla mia terra… lui la domenica scendeva alla Società di Mutuo Soccorso a Montemoro. Credo che la loro vita si svolgesse tutta lì. E questo mi mise tristezza.

Seppi poi dopo della loro storia da un ferroviere, anche lui emiliano: erano persone buone e la barbara uccisione dei loro parenti li confinò per sempre al km 12 della linea Savona Altare…

L’Imelde morì prima del suo amato fratello e mi dispiacque non so se qualcuno si fosse ricordato di lei credo che in pochi le fecero visita… Imelde e suo fratello erano figli di un altro tempo ancora di un tempo che non lasciava molto spazio ai sentimenti. I loro volti erano quelli rassegnati di uomini e donne nati poveri nei primi anni del Novecento…

di Roberto Trutalli, Sindaco di Pigna (IM)

I Bassi di ebrei ne hanno fatti sconfinare molti verso Francia

Con gli anni si dorme di meno e Pierin ne ha ottantasette e la sera da un po’ di tempo fa fatica a prendere sonno. E poi c’è quella scena che gli viene in mente tutte le sere. Sono a cena da Tornaghi [ristorante in Ventimiglia (IM)], il commissario Pavone è passato con la scusa di bere una volta; ha avvertito Marco Bassi che il giorno dopo passerà a prenderlo, arrestarlo, lui e suo padre Ettore. Li avvisa per dar loro l’ultima occasione per fuggire, in un certo senso sono tutti amici, compagni di ribotte.

I Bassi di ebrei ne hanno fatti sconfinare molti verso Francia e stavolta dovrebbero scappare loro [con il complesso delle leggi razziali del 1938 venne decretata anche l’espulsione di tutti gli ebrei stranieri residenti in Italia: molti di questi tentarono, spesso riuscendoci, la fuga clandestina verso la Francia attraverso la frontiera del ponente di Liguria; in proposito: Ombre al confine di Paolo Veziano L’espatrio clandestino degli Ebrei dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra 1938-1940, ed. Fusta, 2014].

Pierin ha capito al volo ed ha subito pensato alle valli di Cuneo, già in mano ai partigiani ed ai contrabbandieri, alla possibile salvezza a Caraglio, a Castelmagno dove conosce molti amici. E’ pronto col tassista Cavallotti per portarli via, padre e figlio. Anche Marco ha capito, ma il padre è già anziano e non vuole lasciarlo solo; la mamma l’hanno già sistemata con l’aiuto dei Notari alla clinica Moro, sulla via Romana. Sono lì e si guardano indecisi; Marco si toglie dal polso l’orologio d’oro di marca e lo offre in ricordo a Pierin che tentenna, vuole ancora convincerlo a scappare. Così l’orologio lo prende la Giretto che gestiva il negozio dei Bassi. Quell’orologio gli manca da più di sessant’anni e quel gesto è l’ultimo che gli viene in mente ogni sera prima di addormentarsi. E prendere sonno è sempre più difficile.

[Ettore e Marco Bassi furono deportati ad Auschwitz da dove non fecero più ritorno].

da ViteParallele di Arturo Viale di Ventimiglia (IM)

Alcune vicende partigiane di fine gennaio 1945 nella I^ Zona Operativa Liguria

Il giorno 23 [gennaio 1945] nella parte occidentale della “I^ Zona Operativa Liguria” avveniva l’uccisione di alcuni partigiani appartenenti al Distaccamento “Folgore” del Battaglione “Secondo”. Infatti la sera del 23 circa cento SS con due mortai circondavano casa Ghersi a Taggia (IM). I quattro garibaldini che si trovavano nell’abitazione vennero immediatamente immobilizzati e torturati. Venne bruciato il fienile di Raffaele Polito. Dopo di che, seguendo una lista fornita da qualcuno, continuarono gli arresti. Sulla strada si trovarono i cadaveri di tre garibaldini (Pistone, Gazzolo e Cichero). Dei partigiani che si trovavano all’interno del casone il solo Luigi Ghersi, pur ferito, riuscì a fuggire, mentre gli altri vennero uccisi.

Nella vicina Sanremo (IM), la notte successiva, vennero fucilati cinque partigiani presso Villa Junia. Quattro di essi portavano il cognome Laura: Gio Batta “Paolo”, Luigi “Gino”, Mario e Silvio Antonio”.

Il giorno 24 venne fucilato anche Renato Giusti (Baffino), che era stato catturato durante il rastrellamento di Terzorio avvenuto tre giorni prima. “Baffino” lavorava nell’organizzazione “Todt” di Porto Maurizio, da cui riuscì a far fuggire diversi patrioti che si diressero in montagna; già scoperto ed incarcerato una volta, ma in seguito liberato dai garibaldini, era stato incorporato nelle formazioni della II^ Divisione.

Dopo tre giorni di relativa calma riprese il veemente rastrellamento ai danni della VI^ Divisione. Il 25 gennaio 1945, all’alba, tre colonne tedesche “provenienti da Borghetto d’Arroscia, Casanova Lerrone e Pieve di Teco giungono a Ubaghetta. La nostra pattuglia avvista il nemico ed apre il fuoco, ma il garibaldino Redaval (Cardoletti Germano) continua impavido a sparare finchè viene colpito da una raffica di mitra e catturato” [L. Massabò “Pantera”, Cronistoria militare della VI^ Divisione “Silvio Bonfante” < diario inedito nel 1999, conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia >]. Redaval verrà fucilato da un plotone d’esecuzione formato dai “Cacciatori degli Appennini”. Dopo tale attacco i nemici si ritirarono sulle posizioni iniziali ed i Distaccamenti “Maccanó” e “De Marchi” poterono sganciarsi. Il 25 gennaio 1945 rappresenta un’altra tragica pagina nella storia della IV^ Brigata “Guarrini”, poiché il X Distaccamento “W. Berio” venne quasi completamente sgominato. Gli undici uomini del X Distaccamento “con a capo Dimitri e Merlo, uno dei più vecchi garibaldini, commissario, si era portato in una località tra Pantasina e Villa Talla, in un fondo valle, presso un ruscello. Il rifugio sembrava sicuro: un muro a secco era stato eretto all’entrata della tana, dove la vita era orribile per il fango e l’umidita”. Una spia (probabilmente la staffetta Toni guidò da Porto i briganti neri al rifugio. Tolgono le pietre e già sorride loro I’idea di un facile eccidio. Peró due colpi secchi di revolver annunciano che il luogo è ormai una tomba sacra… Merlo si è infatti sparato al cuore e Dimitri alle tempie; per non sottostare all’onta della prigionia… le camicie nere infieriscono sui due cadaveri” [da “L’epopea dell’esercito scalzo” (a cura di Mario Mascia) – ed. A.L.I.S.] Gli altri nove garibaldini vennero arrestati e di questi solo due si salvarono dalla fucilazione.

Il giorno successivo riprese il grande rastrellamento ai danni delle formazioni della VI^ Divisione, iniziato sei giorni prima. Verso la sera del 26, infatti, il Distaccamento “Catter” con una marcia di quasi cento chilometri si portò dalla Val Pennavaira alle pendici del monte Torre. Giunti nei pressi della Cappella Soprana di Stellanello (SV), quattro garibaldini si accantonarono in un da cui avvistarono una colonna di “Monte Rosa”. “Il commissario Gapon (Renzo Scotto), il capo squadra Bruno (Bruno Amoretti), i garibaldini Marat e Franco (Dante Del Polito) combatterono eroicamente, uccidendo il tenente comandante del pattuglione, un sottoufficiale e quattro soldati. Il nemico rimane disorientato e facilita lo sganciamento dei garibaldini” [L. Massabò “Pantera”, op. cit.]. Tra cui “Marat” (Arbotti, od Ortelli, Renzo, che era nato nel 1920 a Reggio Emilia), che dopo pochi metri morirà per le ferite riportate nello scontro.

Anche il giorno 27 fu segnato da vasti rastrellamenti nemici, in particolare da formazioni della “Muti” e della “Monte Rosa”, che batterono la zona di Ginestro [Frazione di Testico in provincia di Savona]. Alle 7 del mattino “la pattuglia a fondo valle comunica che il nemico si avvicina alla nostra zona… le squadre vengono disposte in ordine di combattimento. Il garibaldino Brescia (Longhi Mario) allo scoperto, con il suo inseparabile M.G., apriva il fuoco contro il nemico avanzante. Una raffica avversaria gli asportava l’arma dalle mani… veniva colpito mortalmente alla testa” [L. Massabò “Pantera”, op. cit.]. Durante lo stesso combattimento periva, altresì, il garibaldino “Romano” (Paloni Silvio). Le due squadre del Distaccamento “Garbagnati” riuscirono ad aprirsi la strada per la fuga perdendo un ta-pum ed una macchina da scrivere.

Il 28 gennaio le truppe addette ai rastrellamenti abbandonarono le valli presidiate nei giorni precedenti (Pennavaira, Arroscia e Lerrone) ad eccezione della valle di Andora che sarà abbandonata il giorno successivo. Unico grande presidio della zona rimarrà quello di Borgo di Ranzo che ospiterà circa centoventi soldati delle “Brigate Nere”.

Cessato il pericolo costituito dai rastrellamenti dei giorni precedenti, il Comando divisionale della “Bonfante” dispose lo spostamento nella valle d’Arroscia (parte nord) del Comando della III^ Brigata e della sua Intendenza, mentre il Distaccamento Maccanò si spostava nella zona di Aurigo ed il Distaccamento De Marchi nella Val Pennavaira.

Resasi momentaneamente meno pericolosa la lotta per gli uomini della “Bonfante”, il 31 gennaio rappresentò, di contro, l’ennesima pagina nera per la IV^ Brigata della “Cascione”. Come ricorda Gino Gerini (Gino), il 30 gennaio “giungemmo, al crepuscolo, in regione Ni-Cuni, tra Tavole e Val Prino. Scoprimmo un casone isolato fra i castagni e decidemmo di passarvi la notte“. I garibaldini avevano in progetto la cattura di tre pericolose spie di Vasia. Così Gino “dispose che “Deri, Livio e Cristo prelevassero le spie. Nello stesso tempo io, Lupo e Battista, l’amministratore della Brigata, partimmo per Tavole per ritirare importanti documenti e rientrammo in base verso mezzanotte, accompagnati da Timoscenko che aveva effettuato una visita a casa“. Il mattino del 31 gennaio due colonne tedesche circondarono il casone in cui si trovavano i garibaldini. A “Gino” non rimase altro che ordinare la fuga. Tuttavia “due giorni dopo all’uscita del paese di Villa Talla, mentre attraversavamo il ponte, scorgemmo in distanza una folla. Ci avvicinammo: sette bare sfilavano innanzi a noi“. Tra i deceduti vi erano “Battista” (Manfredo Raviola), “Timoscenko” (Tommaso Ricci), “Cristo” (Bartolomeo Dulbecco), che morirono nel vallone di Villa Talla ed altri tre, “Matteo” (Matteo Zanoni), “Insalata” e “Leone”, che furono prima torturati e poi fucilati.

“Lupo” e “Veloce” il 4 febbraio 1945 segnalarono la grave situazione in cui si trovava la IV^ Brigata, precisando che il I° Battaglione constava di 65 uomini, il II° di 70 ed il IlI° di 90.

L’ultimo giorno di gennaio al tragico episodio di Villatalla si aggiunse un altro dramma. Per vendicare la scomparsa di due soldati tedeschi avvenuta l’8 gennaio “lungo il tratto di strada Castelvecchio-Pontedassio… non essendo ritornati ed avendo avuto comunicazione che i due soldati furono bestialmente uccisi, sono apparsi davanti al tribunale militare germanico” 20 partigiani catturati in Val Prino o prelevati nelle carceri d’Oneglia, di cui 11, arrestati il 9 gennaio (Stenca, De Marchi, Manodi, Ansaldo, Garelli, Bosco, Bertelli, Cipolla, Ardigò, Noschese e Delle Piane), che verranno fucilati lungo la salita di Capo Berta. Le SAP (Squadre d’Azione Patriottica) di lmperia avevano già dieci giorni prima richiesto alle formazioni di montagna la cattura di alcuni gerarchi fascisti ed ufficiali tedeschi per poterli scambiare con alcuni degli uomini che saranno uccisi il giorno 31. Gli altri 9 patrioti processati dal tribunale tedesco (Varalla, Favale, Garletti, Guarreschi, De Lauro, Deri, Brancaleone, Giordano e Cavallero) saranno fucilati il 9 febbraio dietro il cimitero di Oneglia.

Responsabile di questo eccidio e di altri che si verificheranno dal gennaio 1945 alla fine della guerra fu una donna la cui identità rimase a lungo celata tanto che fu conosciuta con lo pseudonimo di “donna velata”. Per l’importanza che questa spia ricoprì nelle vicende della “I^ Zona Operativa Liguria” risulta necessario tracciare un sunto…

tratto, p.g.c. dell’autore, Rocco Fava di Sanremo (IM), da “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio – 30 Aprile 1945)” – Tomo I – Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia – Anno Accademico 1998 – 1999