Storia minuta

Torture.

Nulla è cambiato. Il corpo prova dolore, deve mangiare e respirare e dormire, ha la pelle sottile, e subito sotto, sangue. Ha una buona scorta di denti e di unghie, le ossa fragili, le giunture stirabili. Nelle torture, di tutto ciò si tiene conto.

Nulla è cambiato. Il corpo trema, come tremava prima e dopo la fondazione di Roma, nel ventesimo secolo prima di e dopo Cristo, le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.

Nulla è cambiato. C’è soltanto più gente, alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove, ma il grido con cui il corpo risponde era, è e sarà un grido di innocenza, secondo un registro e una scala interni.

Nulla è cambiato. Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze. Il gesto delle mani che proteggono il capo è rimasto però lo stesso. Il corpo si torce, si dimena e divincola, fiaccato cade, raggomitola le ginocchia, illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.

Nulla è cambiato. Tranne il corso dei fiumi, la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai. Tra questi paesaggi l’animula vaga, sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana, A se stessa estranea, inafferrabile, ora certa, ora incerta della propria esistenza, mentre il corpo c’è, c’è, e c’è e non trova riparo.

Wisława Szymborska

Alcuni rilievi degli Alleati sull'estremo ponente ligure verso la fine della seconda guerra mondiale

30 dicembre 1944

RAPPORTO SETTIMANALE

Linea del fronte immutata... Schieramento delle unità americane: immutato...

...Il 28 dicembre è stato riacciuffato un prigioniero italiano che tentava di passare in Italia in barca. Era evaso da Villafranca (caserma Rochambault) al mattino alle 6 in barca, si era fermato a Monaco per cercare da mangiare e subito ripartito. E’ stato obbligato ad accostare dal fuoco dei nostri mitraglieri avendolo scorto davanti a di Mentone verso le 15....

....Servizio di pattuglia: obiettivo: Ciotti...

...Tiri di disturbo dell’artiglieria americana........ ...Attività nemica: tiri di disturbo su Roquebrune, Carnoles. Insignificanti.

26 gennaio 1945 RAPPORTO SETTIMANALE

Linea del fronte immutata... Posizione delle truppe immutata...

OPERAZIONI ESEGUITE Nella notte tra il 20 e il 21 gennaio una pattuglia americana della compagnia C in avanscoperta ha fatto 14 prigionieri (8 italiani e 6 tedeschi)......7 nemici feriti, 1 americano ucciso.

Il 21 gennaio alle 23 al porto di Mentone per errore due agenti italiani vengono presi a fucilate, uno è ucciso l’altro ferito.

....Gli agenti italiani credevano di trovarsi ancora in territorio italiano.... ....E’ necessario ancora una volta segnalare che i militari di guardia siano avvisati dell’arrivo di agenti...

....tre soldati della 1° compagnia saltano su una mina; 1 ferito grave, 2 leggeri. ...Movimento truppe nella valle del Nervia... ....I tiri d’artiglieria sono diminuiti da una parte e dall’altra......

....Un MAS italiano con due uomini a bordo è catturato dagli americani..... .....42 colpi nemici su Mentone. .....Artiglieria, Aviazione e Marina amiche in azione....

10 febbraio 1945 RAPPORTO SETTIMANALE

Linea del fronte immutata.... Dispiegamento delle unità immutato.....

....Il 9 gebbraio tiri di mortaio da 81 al limite della gittata.... ....60 colpi sul castello Voronoff e sopra la caserma dei Carabinieri.... ....Da Cap Martin 50 tiri di cannone da 75 sul castello Voronoff e Grimaldi ... ....Reazione dell’artiglieria nemica: 2 ore, senza danni....

L’aviazione ha bombardato Bordighera.

da documenti recuperati a cura di Giuseppe Mac Fiorucci in vista della preparazione di “Gruppo Sbarchi [Partigiani del Mare a Vallecrosia (IM) e zona]

MANOEL DE OLIVEIRA (1908-2015): Il movimento filmico totale del linguaggio parlato

QUINTO IMPERO L’encombrado Manoel de Oliveira[1]

L'ultima memoria vivente e fattiva del cinema delle origini si è estinta con la morte del regista portoghese Manoel de Oliveira. Sopravvissuto formidabile di una fine secolo, il XX°, che aveva mietuto a frotte grandi vecchi, il regista portoghese era rimasto sulla breccia sino quasi allo scadere del tempo. Era infatti del 2012 l'ultimo cortometraggio Gebo e l'ombra, tratto, come spesso i film di de Oliveira, da una pièce teatrale (nel caso O gebo e a Sombra di Raul Brandão, dramma sulla prima repubblica portoghese e sulla sua fine in prossimità dell'avvento ormai imminente di Salazar). De Oliveira ambienta però il dramma nella Francia contemporanea, ricucendolo come un amaro apologo: è il commiato avvilito di un cineasta che dopo aver sperimentato la sferza della censura salazarista e la seguente liberazione da essa, si trova a morire disilluso in un tempo in cui il mondo occidentale apparecchia già nuovi scenari post-democratici.

Inevitabile sarà anche il riferimento a quel Portogallo contemporaneo sconciato dalla crisi e alle prese con nerboruti burocrati e speculatori venuti da fuori a spartirsi i resti migliori, i brandelli di uno stato che fu. Niente di peggio, per chi viene da un tempo di illibertà che parevano scontate una volta per tutte, che finire da capo nella pressa di comandi astratti e feroci, impartiti questa volta non a suon di manganello o archibugio, ma con in pugno il bigino delle regoline degli euroeconomisti. Fermo restando che il quarantennio/cinquantennio salazarista e le sue purghe sono inemendabili, che dire però del cipiglio degli euroburocrati che smantellano a suon di intimazioni quanto resta dell'autodeterminazione di un popolo? Il regista vacilla di fronte a tutte le illibertà senza distinzione alcuna, poiché ammesso che la brutalità attuale non si esercita con violenza, non è detto che col tempo i suoi guasti non arrivino ad essere persino peggiori.

Non parrà allora strano che de Oliveira non tratti il caso storico con riferimento diretto al paese natale (come ad esempio fa Solanas ne Il diario del saccheggio [2004], ricognizione documentaristica sull'Argentina del dopo-crac che, liberatasi dalle asfissianti maglie del dollaro, piombava in una selvaggia dismissione di stato tra miseria e fame): perché così da sempre, in una storia che si chiude ciclicamente sul peggio, non resta che affinare un sapiente scetticismo.

Così era stato per tutto il secolo breve il quale, pur avendo stentato ad aprirsi, si chiudeva fulmineamente, in un giubilo di novità. Ma questo è solo il punto di arrivo, né è detto che per de Oliveira valga da consuntivo sbrigativo di un cammino ben lungo e assai articolato.

Procediamo per gradi.

De Oliveira nasce nel 1908, è quindi molto giovane quando il cinematografo si sta ancora facendo le ossa. È inoltre figlio di un ricco industriale e ama lo sport. Esordirà al cinema come attore in prossimità della fine del muto, per poi presentarsi nelle vesti di regista nel 1931, con Douro, lavoro fluviale, un cortometraggio realizzato come un poema visivo ad illustrare le attività lavorative sul fiume Douro e i dintorni della sua foce a Lisbona. Il corto è saturo delle suggestioni di Berlino – Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann, di cui riprende la movimentata illustrazione su accompagnamento musicale e il dimesso realismo, una scelta in contrasto con la vena più celebrativa di taluni corti di un Vertov. Tanto nel film di Ruttmann quanto in quello di de Oliveira, si ha l'impressione che il regista voglia darci a intendere di narrare solo ciò che capita lì per lì, senza volontà di piegare il vero ad un fine secondo, laddove gli analoghi film sovietici sono tutti presi dalla elaborazione di un mito palingenetico della giovane URSS. Ma, rispetto al pionierismo di Ruttmann, de Oliveira opera uno scarto.

Aniki bóbó (1942) è una favoletta in stile neorealista (con tanto di stile semi-documentarista e attori non-protagonisti) di amorucci infantili, nonché una prima sortita in campo allegorico. Ma l'intento del regista non è quello di raffigurare, come accade nei film neorealisti, squarci di realtà ripresi dal vero, l'idea è piuttosto quella di dipingere “il desiderio e il senso di colpevolezza, la paura e la gelosia, il rimorso e la punizione. Come lo stesso regista ha dichiarato, 'cercando di raccontare una storia semplice, volevo che i bambini rispecchiassero i problemi degli adulti, in loro ancora allo stato embrionale: la contrapposizione tra i concetti di bene e di male, di odio e di amore, di amicizia e di ingratitudine'”[2]. Il film è una specie di piccolo saggio su motivi tipicamente hitchcockiani che ritroviamo anche nel cinema del cattolico impersuaso de Oliveira: “il desiderio e il senso di colpevolezza, la paura e la gelosia, il rimorso e la punizione”[3]. In una bella lettura del film, João Bénard Da Costa mostra come già agli esordi sia soprattutto il cortocircuito paura-desiderio-castigo-liberazione a intrigare la fantasia di de Oliveira:

“Da questo punto di vista, la sequenza in cui Carlitos regala la bambola a Teresinha è prodigiosa. Il bambino la sorprende di notte, arrivando dall'alto (come un angelo o un diavolo) e la chiama mentre lei è già a letto (grazie a un cambiamento nell'illuminazione e nelle inquadrature, Teresinha appare in queste immagini più grande, come un'adolescente). Lei si alza, indossando una camicia da notte bianca, e accetta il regalo e la dichiarazione di Carlitos. Ma il momento culminante ‒ quello del bacio ‒ viene interrotto dalla caduta del ragazzo, con un'evidente connotazione sessuale. Colpevole di un furto, colpevole di uno 'stupro', Carlitos sarà poi accusato di essere un assassino. Quando la sua innocenza viene riconosciuta, restituisce la bambola (cioè si libera del furto) e 'sposa' Teresinha, liberandosi anche dello 'stupro'. L'immagine finale è quella di una coppia che porta a spasso il proprio figlio. Il film che ‒ dopo il prologo con il guaio combinato da Carlitos ‒ era iniziato con immagini che dal cielo scendevano verso la terra, nel suo finale risale dalla terra verso il cielo. La paura ‒- che possiamo intuire fin dal prologo ‒ proviene dal cielo stellato sopra le nostre teste o da questa terra dove la morale ci impone i suoi divieti e ci fa sentire costantemente in colpa?”[4].

Potrebbe essere un Marnie o un Under Capricorn, ivi compresa una certa prolissità di temi e simboli letterarii, e lo spiazzamento allegorico di età. Ma notiamo già qui un problema di fondo che riguarda l'idea di storia propria del regista: la storia è opera degli uomini e dei loro atti, o questi ultimi sono solo pedine e figuranti dentro una ribalta metafisica a tenuta stagna? È un'oscillazione che visita con regolarità i film del regista, contesa tra la rivisitazione integralmente teatrale e sacro-profana degli eventi storici, e una ricostruzione invece affidata a una riduzione interpretativa, in forma filosofico-allegorica, degli eventi[5].

Lontano dall'apparire un esordio in veste di realismo, troviamo quindi già in Aniki bóbó un corredo di temi ricorrenti. Essi si ripresenteranno intatti nei successivi riadattamenti cinematografici di una teatralità disadorna e primitiveggiante, persuaso il regista a rigettare da sé e dal suo cinema ogni forma di dissimulazione che serva da impressione di realtà. È fin d'ora chiaro, e si confermerà con accentuata ironia nel corso del tempo, che il cinema di de Oliveira è una messa in scena di idee animate, che si servono anche, a garanzia di maggior sicurezza, di un ben congegnato meccanismo di revoca drammatica: come in ogni operazione di maniera e di finzione che si rispetti, pullulano sdoppiamenti e rispecchiamenti, sosia e doppi, artifici di ogni tipo, fino alla derisione e alla commedia più delirante e barocca di parti in scena che procedono a un progressivo allontanamento dei personaggi da se stessi[6].

Sarà anche, quello di de Oliveira, un cinematografo in cui abbondano i riferimenti letterarii e il ricorso a fonti letterarie di ogni tempo e indirizzo[7] (oltre che alcuni miti di carattere ancestrale che innervano interi filoni della sua filmografia: valga per tutti quello dell'“Encoberto” don Sebastiano e del suo mistico Quinto Impero). Quello del don Sebastiano è, per il Portogallo, un mito fondativo storico e insieme letterario, nel quale a sua volta si riflette una duplice tensione che il regista ha ben presente nella sua interezza:

“La morte del re e del suo popolo ad Alcacer Quibir[8] e la sua epifania in una data incerta, tra sogno, mito e storia, si costituiscono in messianesimo. Tra soteriologia, escatologia e angelologia, affiorerà e crescerà nell'animo portoghese la figura del suo re sacralizzato. Tra tempo ed eternità, egli fisserà il momento del suo ritorno dalla morte che coinciderà con la salvazione del suo popolo. E nell'attesa del suo ritorno si sospenderà per secoli la vita di una nazione in ansie, speranze, sogni, soprattutto il sogno del Quinto Impero”[9].

Un primo aspetto del mito ha dunque a che vedere con un trauma storico, a tutta prima riconducibile a rimpianto archeo-nazionalistico: al Portogallo, che aveva inaugurato i gloriosi viaggi oceanici del tempo moderno, tocca – prima e ultima tra le grandi potenze del tempo – di perdere l'indipendenza a scadenza indefinita[10]. Il mito del re morto e scomparso servirà a tenere vivo il fantasma di una promessa di riscatto indefinibile, rimandata nei secoli sino a trasformarsi, nel suo sogno risanatorio e compensativo, in autentico simbolo di mistico disvelamento letterario[11]:

“Un mito, un sogno, quello del sebastianismo, che nasce anche come logos, ovvero si manifesta con la sua parola e attraverso di essa, nasce insomma avvolto in un'invenzione letteraria. In un duplice senso, direi: innanzitutto per la congruenza tra letteratura e sebastianismo, poiché il mito dell'encoberto ha già in sé qualcosa di letterario; lo svelamento è l'atto del poeta che cerca di scoprire l'ignoto, di penetrare quel che è occulto: l'invenzione, insomma, come rivelazione dell'oscuro”.

Non è estranea a questa fantasia secolare e palingenetica un'eco di scritture mistiche, da Isidoro di Siviglia a Gioacchino da Fiore, che non sfuggiranno nei secoli seguenti a scrittori come Fernando Pessoa il quale, anzi, nato com'era nel 1888 (l'anno che il Bandarra, trovatore ebreo converso del XVI secolo, aveva vaticinato per il ritorno del sovrano in Terra[12]), ne profitterà per presentarsi al suo tempo come inveramento al presente della profezia, congiungendo a un mito già carico di valenze esoteriche, ulteriori vibrazioni misteriche, in linea forse con un certo paludamento massonico e nazionalista che l''800 aveva riscoperto nel furore patriottico dei contrasti risorgimentali.

Di questo cumulo di simboli, de Oliveira non accoglie lo slancio patriottardo, facendo del mito del re una specie di riferimento negativo di una storia nazionale, quella portoghese, consumata in una delusa attesa messianica di rinascita.

Privo di slanci nazionalistici, il pensiero di de Oliveira non manca tuttavia di una fisionomia politica, pur se dipendente, quest'ultima, dal più profondo sedimento religioso che si radica in tutto il cinema del regista portoghese. Nell'essere, quello politico, un pensiero derivato, finisce però col caricare i film che più vi si conformano di una vena moralistica che spesso si traduce in un'opaca forma didascaleggiante. Ne riescono film come La caccia (1963) e La cassetta (1994), o anche, sia pure in un'accezione più lata, Un film parlato (2003) e il già citato Gebo e l'ombra.

La caccia è un cortometraggio di epoca salazariana che ebbe a soffrire per il suo sconsolo bilancio anti-populista: due ragazzi si avventurano in una palude e uno di essi rimane intrappolato nelle sabbie mobili che lo risucchiano verso il basso; l'altro amico raduna allora un gruppetto di volenterosi che vorrebbero prestare aiuto, salvo abbandonarsi a futili litigi mentre la fanghiglia inghiotte la vittima[13]. La cassetta è di molti anni successivo, ma il regista non ha mutato idea: il popolo è sempre quello, diviso e bilioso. Nel vicolo di un luogo imprecisato (ma il regista ci tiene a farci sapere sin dall'inizio che siamo in prossimità di un teatro, addirittura la scena stessa su cui si svolgono gli eventi potrebbe essere/è un palcoscenico naturale, dove la sera che precede gli eventi – magico preludio stranito – si esibiscono un gruppo di silfidi in tutù: tutto affinché lo spettatore non abbia a dimenticare la nozione di finzione specchiata e riflessa, rigorosamente manipolata, che sovrintende il gioco cinematografico di de Oliveira), va in scena la storia di una possibile giornata qualunque, corredata di scherzi e ammiccamenti, più o meno feroci, tra i conoscenti del luogo. Alla fine è la noia ad avere il sopravvento, il gioco e lo scherzo da bar si tramutano in baruffa e in delitto. Il popolo era e resta plebaglia, prima e dopo Salazar, e il buono che alberga nei bassifondi si perde vagando alla cieca.

Un film parlato abbraccia la questione più vasta dei popoli e delle loro originarie divisioni storiche. Mentre la protagonista del film – una professoressa di scuola – nel suo viaggio per nave, tappa dopo tappa tocca le culle simboliche delle più importanti civiltà del Mediterraneo (da Pompei ad Atene, dall'Egitto a Istanbul, con un accenno strada facendo alla vicenda ebraica), a bordo del natante si riunisce un gruppo di tre signore che raffigurano l'eredità vivente dei tempi passati: tre volti ben noti al cinema (Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas), che incarnano forse ironicamente il mito delle tre Grazie, con quella loro inspiegabile capacità di superare la barriera della lingua (nel film ciascuna di esse parla la propria lingua madre, senza che il fatto sia d'impedimento al dialogo e alla comprensione reciproca). Tiene compagnia ad esse l'amorevole comandante interpretato da John Malkovich, americano di origine greca, cui forse il regista affida l'ipotesi di un'utopica sintesi spirituale e culturale. La sola a morire nell'affondamento della nave (per mano, non casuale, di terroristi islamici) sarà la professoressa portoghese. Fiaba allegorica, certo, ma di che? Di una divisione insanabile tra le culture? O forse di un naufragio prossimo venturo di un Mediterraneo meraviglioso nella sua decrepitezza secolare ma incapace di avviarsi ad un nuovo tempo? Come che sia, il de Oliveira espressamente politico e secolare pare a tutti gli effetti regista minore: pur essendo ampiamente condivisibili, ben espresse e talora dotate di una distaccata brillantezza, le ipotesi e la foggia di questi film sono quelle minori della lezioncina didattica, dove non vibra l'invenzione.

Come, del resto, potrebbe essere diversamente, per un cineasta che non crede alla polemica, alla violenza emotiva e – cosa che più conta – non crede alla psicologia e ai suoi personaggi, sempre perseguitati e umiliati da un doppio o da una tara, un'ombra malevola. Meglio sarebbe però dire che de Oliveira diffida dell'idea di far leva sull'intreccio narrativo e sull'effetto di identificazione che ne deriva, l'espressione di alcunché. Tutto deve passare per la tecnica e il rito. Per chi non lo rammentasse, La tecnica e il rito (1972) era il titolo di un film di Jancsó in cui si narrava, nel dipanarsi di misteriose liturgie e iniziazioni, l'immaginaria ascesa di un giovane Attila. Il risultato era un film confuso, conteso da spinte contraddittorie tra il disprezzo di ogni machiavellismo e la rinnovata fascinazione per la sacralità del potere nella sua forma tirannica e orientale. In questo de Oliveira sarà sempre invece schietto e senza remore: il potere è sempre nemico giurato dell'umano. L'opposizione è proprio da intendersi così, per effetto di contrasto tra categorie universali che non prevedono possibili mediazioni dialettiche da parte della storia: inevitabile che la soluzione sia il film parabola, l'exemplum o il mistero allegorico medievale.

Ecco allora che in No, o la folle gloria del comando (1990) si misurano a distanza, con invariata atrocità d'esiti, il presente delle guerre coloniali in Angola e il passato della fallimentare impresa di Alcácer Quibir di don Sebastiano. Privata del suo multiforme divenire e delle sue accidentalità di transito, della storia resta qui solo l'ultimo nodo, il cappio, stretto intorno al collo di un popolo che non cessa di soffrire le ambizioni mondane dei suoi re e comandanti. Allo stesso modo, Atto di primavera (1963), film su una rievocazione scenica della passione di Cristo (con tanto di mise en abyme tra realtà filmata e finzione scenica), si concludeva con quegli stralci filmati di tragedia (esplosioni atomiche, guerre, corpi lacerati, deportazioni) che dovevano ripetere in forme solo apparentemente mutate la passione di Cristo nel tempo. Ancora ne Il Quinto Impero (2004), la claustrofobica teatralità della vicenda, che ha per protagonista il solito mitologico don Sebastiano, rappresenta una sorta di riflessione allucinatoria e mistica sull'azione politica e le sue premesse, in un intreccio di onirismi e fantasie (“contrasti violenti tra spazi claustrofobici e notturni squarci senz'altra luce che le stelle, con corpi che s'addormentano e statue che si animano, messa in scena dell'origine del mito politico”[14]), quasi una rielaborazione, o una rilettura, di altra più grandiosa parabola luciferina sul mito di un re-mago o santo-dittatore: lo storico dittico su Ivan il Terribile di Ejzenstein.

Con Il Quinto Impero siamo ad esiti alti, e finalmente sembra saldarsi il conto con quel versante poetico del mito del Quinto Impero sin qui solo accennato. I meriti non eludono una certa teatralità tornita, cui giova però il sottrarsi al sonnacchioso formulario dell'escatologia o del puro didascalismo. In film come i già citati Il Quinto Impero e Parola e utopia (2004) ma anche, in ambiti differenti, ne Le soulier de satin (1985), I cannibali (1988) e La divina commedia (1991), il fare teatro diviene anche sottomissione d'incanto alla parola (“Ho scoperto che il linguaggio è sovrano, anche al cinema. Tutto dev'essere sottomesso al linguaggio”[15]), in un teatro liturgico che si presta alla fantasia barocca.

La teatralità che domina il cinema di de Oliveira è insieme risorsa tecnica, che sottrae alla recitazione il gusto della vivacità simulata (vi è qui certamente il gusto, ricercato e autoimposto, come imitazione di un modello ideale, guida ed esempio formale superiore, del cinema giapponese[16]); ma è soprattutto fine e sigillo di un arcaismo ostinato e alchemico, cui non è estranea forse una sorta di crepuscolare posa aristocratica nel rifiutarsi alla storia.

In questo senso, il cinema di de Oliveira resta un'arte del movimento paradossale, come paradossali e straniti nella loro apparenza possono risultare certi film venati di ironia surreale e propriamente surrealista (La divina commedia e I Cannibali su tutti). La sorgente del paradosso di questo movimento senza dinamismo è la parola, già centrale in Amore di perdizione (1978), il film che impose all'attenzione dell'Europa (al Festival di Cannes) il lavoro di de Oliveira, e in Francisca (1981):

“Il cinema è movimento: la parola è movimento, il suono è movimento. Facciamo cinema sia riprendendo qualcuno che sta parlando, sia riprendendo una fisionomia o un'attitudine corporale. Per questo non m'importa che si dica che il film è molto parlato. Il cinema non dev'essere poco parlato. Come ho letto da qualche parte: Il linguaggio parlato è un linguaggio totale”[17].

La parola che domina come fascinazione totalizzante la magnifica messinscena ipnotica de Le soulier de satin (“una messa in parola musicale della resistenza umana alle forze della separazione e del disamore che ha per teatro il mondo intero”[18]), o parola che si eccita in forma musicale sino a farsi film-opera ne I cannibali, in cui pasto sacro, culto della morte e metamorfosi surreali si sovrammettono in una temperie tipicamente buñueliana da satira anti-borghese; ma anche parola che si fa tensione mistica e voluttuosa in Parola e utopia che narra la vicenda di padre Antonio Vieira, il gesuita del XVI secolo i cui sermoni leggendari seducevano colti e non colti di tutta Europa (Vieira che fu anche infaticabile e ardente difensore dei diritti delle popolazioni native del Brasile colonizzato). Mai però parola come semplice aggetto formalistico fine a se stesso; e siamo al nervo centrale di questo piccolo e ferrato sistema filosofico-allegorico: da ultimo è il rito che va in scena il fine.

De Oliveira è un religioso impersuaso; lo si è detto sopra, giova ripeterlo qui. Senza sottrarsi all'eredità cattolica che lo segna, de Oliveira, che fu pure allievo dei gesuiti, è a una religione liberatoria che si appella, una sorta di cultura del dubbio che invoca un approdo utopico senza curarsi al limite dell'appuntamento ultimo[19]: l'importante sarà confidare nel pensiero liberatorio di un luogo diverso cui giungere in un'eterna prospettiva di fuga, nel tempo come nello spazio. L'utopia e le sue forme innumerevoli si cristallizzano allora in un immaginario delle metamorfosi che talora paiono raggiungere vere e proprie formulazioni esoteriche[20]: Il Quinto Impero, i sermoni di Antonio Vieira e un immaginario erotico originario e reversibile (dove donna e uomo appaiono il rovescio, mai l'opposto, l'uno dell'altra, sino a confondersi nel mito platonico dell'androgino[21]) servono infine da vettori-traghetto per giungere a ... semplicità e purezza? Sì, ma solo se debitamente differite come ideali ispiratori e continuamente instabili-rivedibili. Serge Daney, critico francese dei Cahiers du Cinéma della generazione successiva ai giovani turchi (quella del “periodo giallo”), già vedeva nel cinema di de Oliveira un richiamo ad una cultura materialista e pagana[22], all'atomismo del pensiero delle origini. Formidabile strumento anche questo di slittamento indefinito della parola e del suo appuntamento con le cose. Si capisce che dietro tutta questa nervatura simbolico-letteraria c'è una ricca e spesso coltivata frequentazione dei philosophes francesi del tempo (da Deleuze a Derrida, filosofo, quest'ultimo, che de Oliveira ebbe a conoscere e frequentare), delle loro speculazioni, finezze e bizantinismi, tra teatri e doppi e specchi a non finire. L'ultimo alambicco è il cinematografo, a cui spetta di suggellare il sortilegio-approdo verso questo Quinto Impero immaginifico.

L'effetto pratico, l'atto registrato su pellicola di questo rituale elusivo e traboccante di segnature letterarie, non sarà di frequente una metamorfosi perfetta ed esente da scorie; ma forse proprio in certi adattamenti esorbitanti è il segno di una grandezza smaniosa e venerante la parola in scena, un culto per la perfezione della recita, per la musicalità del tono, qualcosa che il regista deve avere maturato cammino facendo costeggiando quella rinascenza del barocco operistico che spiccava il volo proprio negli anni migliori di de Oliveira. Di questa possibile convergenza, cinematografo-opera barocca, si servirà in anni più recenti Eugène Green, a cesello di film in cui la parola mira non più solo a farsi mirabile protagonista della scena, bensì a ricrearla ex-novo con fervore sospeso tra lo scherzo e il puro cunto fiabesco (si veda Le monde vivant e quella sua recita in panni borghesi di un'ipotetica chanson de geste, dove le apparenze sono semplicemente inganno e ironia affabulatoria).

De Oliveira resta piuttosto attratto dall'oscillazione che si produce nella realtà, dall'inganno differente e virtuosistico, poiché baroccamente saturo di trompe-l'oeil, che si produce nell'attrito tra le due sfere in collisione. La parola recitata resta incanto di scena. Se ne riverberano squarci magnifici ne Le soulier de satin e Parola e utopia: qui davvero tocchiamo la qualità formidabile dell'artigiano mago di parole catafratte in musica, di recita in trance. È questo forse il regno, bastava a questo la pietra filosofale del cineasta. Tanto che resta il dubbio: il dileguarsi tra noi poveri mortali, sarà anche l'azzardo alchemico di un nuovo clamoroso Quinto Impero?

di Michele Goni in Reti Dedalus (http://www.retididedalus.it/)

di Michele Goni

QUINTO IMPERO

L’encombrado Manoel de Oliveira[1]

L'ultima memoria vivente e fattiva del cinema delle origini si è estinta poco più di tre mesi fa con la morte del regista portoghese Manoel de Oliveira. Sopravvissuto formidabile di una fine secolo, il XX°, che aveva mietuto a frotte grandi vecchi, il regista portoghese era rimasto sulla breccia sino quasi allo scadere del tempo. Era infatti del 2012 l'ultimo cortometraggio Gebo e l'ombra, tratto, come spesso i film di de Oliveira, da una pièce teatrale (nel caso O gebo e a Sombra di Raul Brandão, dramma sulla prima repubblica portoghese e sulla sua fine in prossimità dell'avvento ormai imminente di Salazar). De Oliveira ambienta però il dramma nella Francia contemporanea, ricucendolo come un amaro apologo: è il commiato avvilito di un cineasta che dopo aver sperimentato la sferza della censura salazarista e la seguente liberazione da essa, si trova a morire disilluso in un tempo in cui il mondo occidentale apparecchia già nuovi scenari post-democratici.

Inevitabile sarà anche il riferimento a quel Portogallo contemporaneo sconciato dalla crisi e alle prese con nerboruti burocrati e speculatori venuti da fuori a spartirsi i resti migliori, i brandelli di uno stato che fu. Niente di peggio, per chi viene da un tempo di illibertà che parevano scontate una volta per tutte, che finire da capo nella pressa di comandi astratti e feroci, impartiti questa volta non a suon di manganello o archibugio, ma con in pugno il bigino delle regoline degli euroeconomisti. Fermo restando che il quarantennio/cinquantennio salazarista e le sue purghe sono inemendabili, che dire però del cipiglio degli euroburocrati che smantellano a suon di intimazioni quanto resta dell'autodeterminazione di un popolo? Il regista vacilla di fronte a tutte le illibertà senza distinzione alcuna, poiché ammesso che la brutalità attuale non si esercita con violenza, non è detto che col tempo i suoi guasti non arrivino ad essere persino peggiori.

Non parrà allora strano che de Oliveira non tratti il caso storico con riferimento diretto al paese natale (come ad esempio fa Solanas ne Il diario del saccheggio [2004], ricognizione documentaristica sull'Argentina del dopo-crac che, liberatasi dalle asfissianti maglie del dollaro, piombava in una selvaggia dismissione di stato tra miseria e fame): perché così da sempre, in una storia che si chiude ciclicamente sul peggio, non resta che affinare un sapiente scetticismo.

Così era stato per tutto il secolo breve il quale, pur avendo stentato ad aprirsi, si chiudeva fulmineamente, in un giubilo di novità. Ma questo è solo il punto di arrivo, né è detto che per de Oliveira valga da consuntivo sbrigativo di un cammino ben lungo e assai articolato.

Procediamo per gradi.

Manoel de Oliveira

De Oliveira nasce nel 1908, è quindi molto giovane quando il cinematografo si sta ancora facendo le ossa. È inoltre figlio di un ricco industriale e ama lo sport. Esordirà al cinema come attore in prossimità della fine del muto, per poi presentarsi nelle vesti di regista nel 1931, con Douro, lavoro fluviale, un cortometraggio realizzato come un poema visivo ad illustrare le attività lavorative sul fiume Douro e i dintorni della sua foce a Lisbona. Il corto è saturo delle suggestioni di Berlino – Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann, di cui riprende la movimentata illustrazione su accompagnamento musicale e il dimesso realismo, una scelta in contrasto con la vena più celebrativa di taluni corti di un Vertov. Tanto nel film di Ruttmann quanto in quello di de Oliveira, si ha l'impressione che il regista voglia darci a intendere di narrare solo ciò che capita lì per lì, senza volontà di piegare il vero ad un fine secondo, laddove gli analoghi film sovietici sono tutti presi dalla elaborazione di un mito palingenetico della giovane URSS. Ma, rispetto al pionierismo di Ruttmann, de Oliveira opera uno scarto.

Aniki bóbó (1942) è una favoletta in stile neorealista (con tanto di stile semi-documentarista e attori non-protagonisti) di amorucci infantili, nonché una prima sortita in campo allegorico. Ma l'intento del regista non è quello di raffigurare, come accade nei film neorealisti, squarci di realtà ripresi dal vero, l'idea è piuttosto quella di dipingere “il desiderio e il senso di colpevolezza, la paura e la gelosia, il rimorso e la punizione. Come lo stesso regista ha dichiarato, 'cercando di raccontare una storia semplice, volevo che i bambini rispecchiassero i problemi degli adulti, in loro ancora allo stato embrionale: la contrapposizione tra i concetti di bene e di male, di odio e di amore, di amicizia e di ingratitudine'”[2]. Il film è una specie di piccolo saggio su motivi tipicamente hitchcockiani che ritroviamo anche nel cinema del cattolico impersuaso de Oliveira: “il desiderio e il senso di colpevolezza, la paura e la gelosia, il rimorso e la punizione”[3]. In una bella lettura del film, João Bénard Da Costa mostra come già agli esordi sia soprattutto il cortocircuito paura-desiderio-castigo-liberazione a intrigare la fantasia di de Oliveira:

“Da questo punto di vista, la sequenza in cui Carlitos regala la bambola a Teresinha è prodigiosa. Il bambino la sorprende di notte, arrivando dall'alto (come un angelo o un diavolo) e la chiama mentre lei è già a letto (grazie a un cambiamento nell'illuminazione e nelle inquadrature, Teresinha appare in queste immagini più grande, come un'adolescente). Lei si alza, indossando una camicia da notte bianca, e accetta il regalo e la dichiarazione di Carlitos. Ma il momento culminante ‒ quello del bacio ‒ viene interrotto dalla caduta del ragazzo, con un'evidente connotazione sessuale. Colpevole di un furto, colpevole di uno 'stupro', Carlitos sarà poi accusato di essere un assassino. Quando la sua innocenza viene riconosciuta, restituisce la bambola (cioè si libera del furto) e 'sposa' Teresinha, liberandosi anche dello 'stupro'. L'immagine finale è quella di una coppia che porta a spasso il proprio figlio. Il film che ‒ dopo il prologo con il guaio combinato da Carlitos ‒ era iniziato con immagini che dal cielo scendevano verso la terra, nel suo finale risale dalla terra verso il cielo. La paura ‒- che possiamo intuire fin dal prologo ‒ proviene dal cielo stellato sopra le nostre teste o da questa terra dove la morale ci impone i suoi divieti e ci fa sentire costantemente in colpa?”[4].

Potrebbe essere un Marnie o un Under Capricorn, ivi compresa una certa prolissità di temi e simboli letterarii, e lo spiazzamento allegorico di età. Ma notiamo già qui un problema di fondo che riguarda l'idea di storia propria del regista: la storia è opera degli uomini e dei loro atti, o questi ultimi sono solo pedine e figuranti dentro una ribalta metafisica a tenuta stagna? È un'oscillazione che visita con regolarità i film del regista, contesa tra la rivisitazione integralmente teatrale e sacro-profana degli eventi storici, e una ricostruzione invece affidata a una riduzione interpretativa, in forma filosofico-allegorica, degli eventi[5].

Lontano dall'apparire un esordio in veste di realismo, troviamo quindi già in Aniki bóbó un corredo di temi ricorrenti. Essi si ripresenteranno intatti nei successivi riadattamenti cinematografici di una teatralità disadorna e primitiveggiante, persuaso il regista a rigettare da sé e dal suo cinema ogni forma di dissimulazione che serva da impressione di realtà. È fin d'ora chiaro, e si confermerà con accentuata ironia nel corso del tempo, che il cinema di de Oliveira è una messa in scena di idee animate, che si servono anche, a garanzia di maggior sicurezza, di un ben congegnato meccanismo di revoca drammatica: come in ogni operazione di maniera e di finzione che si rispetti, pullulano sdoppiamenti e rispecchiamenti, sosia e doppi, artifici di ogni tipo, fino alla derisione e alla commedia più delirante e barocca di parti in scena che procedono a un progressivo allontanamento dei personaggi da se stessi[6].

Sarà anche, quello di de Oliveira, un cinematografo in cui abbondano i riferimenti letterarii e il ricorso a fonti letterarie di ogni tempo e indirizzo[7] (oltre che alcuni miti di carattere ancestrale che innervano interi filoni della sua filmografia: valga per tutti quello dell'“Encoberto” don Sebastiano e del suo mistico Quinto Impero). Quello del don Sebastiano è, per il Portogallo, un mito fondativo storico e insieme letterario, nel quale a sua volta si riflette una duplice tensione che il regista ha ben presente nella sua interezza:

“La morte del re e del suo popolo ad Alcacer Quibir[8] e la sua epifania in una data incerta, tra sogno, mito e storia, si costituiscono in messianesimo. Tra soteriologia, escatologia e angelologia, affiorerà e crescerà nell'animo portoghese la figura del suo re sacralizzato. Tra tempo ed eternità, egli fisserà il momento del suo ritorno dalla morte che coinciderà con la salvazione del suo popolo. E nell'attesa del suo ritorno si sospenderà per secoli la vita di una nazione in ansie, speranze, sogni, soprattutto il sogno del Quinto Impero”[9].

Un primo aspetto del mito ha dunque a che vedere con un trauma storico, a tutta prima riconducibile a rimpianto archeo-nazionalistico: al Portogallo, che aveva inaugurato i gloriosi viaggi oceanici del tempo moderno, tocca – prima e ultima tra le grandi potenze del tempo – di perdere l'indipendenza a scadenza indefinita[10]. Il mito del re morto e scomparso servirà a tenere vivo il fantasma di una promessa di riscatto indefinibile, rimandata nei secoli sino a trasformarsi, nel suo sogno risanatorio e compensativo, in autentico simbolo di mistico disvelamento letterario[11]:

“Un mito, un sogno, quello del sebastianismo, che nasce anche come logos, ovvero si manifesta con la sua parola e attraverso di essa, nasce insomma avvolto in un'invenzione letteraria. In un duplice senso, direi: innanzitutto per la congruenza tra letteratura e sebastianismo, poiché il mito dell'encoberto ha già in sé qualcosa di letterario; lo svelamento è l'atto del poeta che cerca di scoprire l'ignoto, di penetrare quel che è occulto: l'invenzione, insomma, come rivelazione dell'oscuro”.

Non è estranea a questa fantasia secolare e palingenetica un'eco di scritture mistiche, da Isidoro di Siviglia a Gioacchino da Fiore, che non sfuggiranno nei secoli seguenti a scrittori come Fernando Pessoa il quale, anzi, nato com'era nel 1888 (l'anno che il Bandarra, trovatore ebreo converso del XVI secolo, aveva vaticinato per il ritorno del sovrano in Terra[12]), ne profitterà per presentarsi al suo tempo come inveramento al presente della profezia, congiungendo a un mito già carico di valenze esoteriche, ulteriori vibrazioni misteriche, in linea forse con un certo paludamento massonico e nazionalista che l''800 aveva riscoperto nel furore patriottico dei contrasti risorgimentali.

Di questo cumulo di simboli, de Oliveira non accoglie lo slancio patriottardo, facendo del mito del re una specie di riferimento negativo di una storia nazionale, quella portoghese, consumata in una delusa attesa messianica di rinascita.

Privo di slanci nazionalistici, il pensiero di de Oliveira non manca tuttavia di una fisionomia politica, pur se dipendente, quest'ultima, dal più profondo sedimento religioso che si radica in tutto il cinema del regista portoghese. Nell'essere, quello politico, un pensiero derivato, finisce però col caricare i film che più vi si conformano di una vena moralistica che spesso si traduce in un'opaca forma didascaleggiante. Ne riescono film come La caccia (1963) e La cassetta (1994), o anche, sia pure in un'accezione più lata, Un film parlato (2003) e il già citato Gebo e l'ombra.

La caccia è un cortometraggio di epoca salazariana che ebbe a soffrire per il suo sconsolo bilancio anti-populista: due ragazzi si avventurano in una palude e uno di essi rimane intrappolato nelle sabbie mobili che lo risucchiano verso il basso; l'altro amico raduna allora un gruppetto di volenterosi che vorrebbero prestare aiuto, salvo abbandonarsi a futili litigi mentre la fanghiglia inghiotte la vittima[13]. La cassetta è di molti anni successivo, ma il regista non ha mutato idea: il popolo è sempre quello, diviso e bilioso. Nel vicolo di un luogo imprecisato (ma il regista ci tiene a farci sapere sin dall'inizio che siamo in prossimità di un teatro, addirittura la scena stessa su cui si svolgono gli eventi potrebbe essere/è un palcoscenico naturale, dove la sera che precede gli eventi – magico preludio stranito – si esibiscono un gruppo di silfidi in tutù: tutto affinché lo spettatore non abbia a dimenticare la nozione di finzione specchiata e riflessa, rigorosamente manipolata, che sovrintende il gioco cinematografico di de Oliveira), va in scena la storia di una possibile giornata qualunque, corredata di scherzi e ammiccamenti, più o meno feroci, tra i conoscenti del luogo. Alla fine è la noia ad avere il sopravvento, il gioco e lo scherzo da bar si tramutano in baruffa e in delitto. Il popolo era e resta plebaglia, prima e dopo Salazar, e il buono che alberga nei bassifondi si perde vagando alla cieca.

Un film parlato abbraccia la questione più vasta dei popoli e delle loro originarie divisioni storiche. Mentre la protagonista del film – una professoressa di scuola – nel suo viaggio per nave, tappa dopo tappa tocca le culle simboliche delle più importanti civiltà del Mediterraneo (da Pompei ad Atene, dall'Egitto a Istanbul, con un accenno strada facendo alla vicenda ebraica), a bordo del natante si riunisce un gruppo di tre signore che raffigurano l'eredità vivente dei tempi passati: tre volti ben noti al cinema (Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas), che incarnano forse ironicamente il mito delle tre Grazie, con quella loro inspiegabile capacità di superare la barriera della lingua (nel film ciascuna di esse parla la propria lingua madre, senza che il fatto sia d'impedimento al dialogo e alla comprensione reciproca). Tiene compagnia ad esse l'amorevole comandante interpretato da John Malkovich, americano di origine greca, cui forse il regista affida l'ipotesi di un'utopica sintesi spirituale e culturale. La sola a morire nell'affondamento della nave (per mano, non casuale, di terroristi islamici) sarà la professoressa portoghese. Fiaba allegorica, certo, ma di che? Di una divisione insanabile tra le culture? O forse di un naufragio prossimo venturo di un Mediterraneo meraviglioso nella sua decrepitezza secolare ma incapace di avviarsi ad un nuovo tempo? Come che sia, il de Oliveira espressamente politico e secolare pare a tutti gli effetti regista minore: pur essendo ampiamente condivisibili, ben espresse e talora dotate di una distaccata brillantezza, le ipotesi e la foggia di questi film sono quelle minori della lezioncina didattica, dove non vibra l'invenzione.

Come, del resto, potrebbe essere diversamente, per un cineasta che non crede alla polemica, alla violenza emotiva e – cosa che più conta – non crede alla psicologia e ai suoi personaggi, sempre perseguitati e umiliati da un doppio o da una tara, un'ombra malevola. Meglio sarebbe però dire che de Oliveira diffida dell'idea di far leva sull'intreccio narrativo e sull'effetto di identificazione che ne deriva, l'espressione di alcunché. Tutto deve passare per la tecnica e il rito.

Per chi non lo rammentasse, La tecnica e il rito (1972) era il titolo di un film di Jancsó in cui si narrava, nel dipanarsi di misteriose liturgie e iniziazioni, l'immaginaria ascesa di un giovane Attila. Il risultato era un film confuso, conteso da spinte contraddittorie tra il disprezzo di ogni machiavellismo e la rinnovata fascinazione per la sacralità del potere nella sua forma tirannica e orientale. In questo de Oliveira sarà sempre invece schietto e senza remore: il potere è sempre nemico giurato dell'umano. L'opposizione è proprio da intendersi così, per effetto di contrasto tra categorie universali che non prevedono possibili mediazioni dialettiche da parte della storia: inevitabile che la soluzione sia il film parabola, l'exemplum o il mistero allegorico medievale.

Ecco allora che in No, o la folle gloria del comando (1990) si misurano a distanza, con invariata atrocità d'esiti, il presente delle guerre coloniali in Angola e il passato della fallimentare impresa di Alcácer Quibir di don Sebastiano. Privata del suo multiforme divenire e delle sue accidentalità di transito, della storia resta qui solo l'ultimo nodo, il cappio, stretto intorno al collo di un popolo che non cessa di soffrire le ambizioni mondane dei suoi re e comandanti. Allo stesso modo, Atto di primavera (1963), film su una rievocazione scenica della passione di Cristo (con tanto di mise en abyme tra realtà filmata e finzione scenica), si concludeva con quegli stralci filmati di tragedia (esplosioni atomiche, guerre, corpi lacerati, deportazioni) che dovevano ripetere in forme solo apparentemente mutate la passione di Cristo nel tempo. Ancora ne Il Quinto Impero (2004), la claustrofobica teatralità della vicenda, che ha per protagonista il solito mitologico don Sebastiano, rappresenta una sorta di riflessione allucinatoria e mistica sull'azione politica e le sue premesse, in un intreccio di onirismi e fantasie (“contrasti violenti tra spazi claustrofobici e notturni squarci senz'altra luce che le stelle, con corpi che s'addormentano e statue che si animano, messa in scena dell'origine del mito politico”[14]), quasi una rielaborazione, o una rilettura, di altra più grandiosa parabola luciferina sul mito di un re-mago o santo-dittatore: lo storico dittico su Ivan il Terribile di Ejzenstein.

Con Il Quinto Impero siamo ad esiti alti, e finalmente sembra saldarsi il conto con quel versante poetico del mito del Quinto Impero sin qui solo accennato. I meriti non eludono una certa teatralità tornita, cui giova però il sottrarsi al sonnacchioso formulario dell'escatologia o del puro didascalismo. In film come i già citati Il Quinto Impero e Parola e utopia (2004) ma anche, in ambiti differenti, ne Le soulier de satin (1985), I cannibali (1988) e La divina commedia (1991), il fare teatro diviene anche sottomissione d'incanto alla parola (“Ho scoperto che il linguaggio è sovrano, anche al cinema. Tutto dev'essere sottomesso al linguaggio”[15]), in un teatro liturgico che si presta alla fantasia barocca.

La teatralità che domina il cinema di de Oliveira è insieme risorsa tecnica, che sottrae alla recitazione il gusto della vivacità simulata (vi è qui certamente il gusto, ricercato e autoimposto, come imitazione di un modello ideale, guida ed esempio formale superiore, del cinema giapponese[16]); ma è soprattutto fine e sigillo di un arcaismo ostinato e alchemico, cui non è estranea forse una sorta di crepuscolare posa aristocratica nel rifiutarsi alla storia.

In questo senso, il cinema di de Oliveira resta un'arte del movimento paradossale, come paradossali e straniti nella loro apparenza possono risultare certi film venati di ironia surreale e propriamente surrealista (La divina commedia e I Cannibali su tutti). La sorgente del paradosso di questo movimento senza dinamismo è la parola, già centrale in Amore di perdizione (1978), il film che impose all'attenzione dell'Europa (al Festival di Cannes) il lavoro di de Oliveira, e in Francisca (1981):

“Il cinema è movimento: la parola è movimento, il suono è movimento. Facciamo cinema sia riprendendo qualcuno che sta parlando, sia riprendendo una fisionomia o un'attitudine corporale. Per questo non m'importa che si dica che il film è molto parlato. Il cinema non dev'essere poco parlato. Come ho letto da qualche parte: Il linguaggio parlato è un linguaggio totale”[17].

La parola che domina come fascinazione totalizzante la magnifica messinscena ipnotica de Le soulier de satin (“una messa in parola musicale della resistenza umana alle forze della separazione e del disamore che ha per teatro il mondo intero”[18]), o parola che si eccita in forma musicale sino a farsi film-opera ne I cannibali, in cui pasto sacro, culto della morte e metamorfosi surreali si sovrammettono in una temperie tipicamente buñueliana da satira anti-borghese; ma anche parola che si fa tensione mistica e voluttuosa in Parola e utopia che narra la vicenda di padre Antonio Vieira, il gesuita del XVI secolo i cui sermoni leggendari seducevano colti e non colti di tutta Europa (Vieira che fu anche infaticabile e ardente difensore dei diritti delle popolazioni native del Brasile colonizzato). Mai però parola come semplice aggetto formalistico fine a se stesso; e siamo al nervo centrale di questo piccolo e ferrato sistema filosofico-allegorico: da ultimo è il rito che va in scena il fine.

De Oliveira è un religioso impersuaso; lo si è detto sopra, giova ripeterlo qui. Senza sottrarsi all'eredità cattolica che lo segna, de Oliveira, che fu pure allievo dei gesuiti, è a una religione liberatoria che si appella, una sorta di cultura del dubbio che invoca un approdo utopico senza curarsi al limite dell'appuntamento ultimo[19]: l'importante sarà confidare nel pensiero liberatorio di un luogo diverso cui giungere in un'eterna prospettiva di fuga, nel tempo come nello spazio. L'utopia e le sue forme innumerevoli si cristallizzano allora in un immaginario delle metamorfosi che talora paiono raggiungere vere e proprie formulazioni esoteriche[20]: Il Quinto Impero, i sermoni di Antonio Vieira e un immaginario erotico originario e reversibile (dove donna e uomo appaiono il rovescio, mai l'opposto, l'uno dell'altra, sino a confondersi nel mito platonico dell'androgino[21]) servono infine da vettori-traghetto per giungere a ... semplicità e purezza? Sì, ma solo se debitamente differite come ideali ispiratori e continuamente instabili-rivedibili.

Un fotogramma di Le soulier de satin, diretto da de Oliveira nel 1985

Serge Daney, critico francese dei Cahiers du Cinéma della generazione successiva ai giovani turchi (quella del “periodo giallo”), già vedeva nel cinema di de Oliveira un richiamo ad una cultura materialista e pagana[22], all'atomismo del pensiero delle origini. Formidabile strumento anche questo di slittamento indefinito della parola e del suo appuntamento con le cose. Si capisce che dietro tutta questa nervatura simbolico-letteraria c'è una ricca e spesso coltivata frequentazione dei philosophes francesi del tempo (da Deleuze a Derrida, filosofo, quest'ultimo, che de Oliveira ebbe a conoscere e frequentare), delle loro speculazioni, finezze e bizantinismi, tra teatri e doppi e specchi a non finire. L'ultimo alambicco è il cinematografo, a cui spetta di suggellare il sortilegio-approdo verso questo Quinto Impero immaginifico.

L'effetto pratico, l'atto registrato su pellicola di questo rituale elusivo e traboccante di segnature letterarie, non sarà di frequente una metamorfosi perfetta ed esente da scorie; ma forse proprio in certi adattamenti esorbitanti è il segno di una grandezza smaniosa e venerante la parola in scena, un culto per la perfezione della recita, per la musicalità del tono, qualcosa che il regista deve avere maturato cammino facendo costeggiando quella rinascenza del barocco operistico che spiccava il volo proprio negli anni migliori di de Oliveira. Di questa possibile convergenza, cinematografo-opera barocca, si servirà in anni più recenti Eugène Green, a cesello di film in cui la parola mira non più solo a farsi mirabile protagonista della scena, bensì a ricrearla ex-novo con fervore sospeso tra lo scherzo e il puro cunto fiabesco (si veda Le monde vivant e quella sua recita in panni borghesi di un'ipotetica chanson de geste, dove le apparenze sono semplicemente inganno e ironia affabulatoria).

De Oliveira resta piuttosto attratto dall'oscillazione che si produce nella realtà, dall'inganno differente e virtuosistico, poiché baroccamente saturo di trompe-l'oeil, che si produce nell'attrito tra le due sfere in collisione. La parola recitata resta incanto di scena. Se ne riverberano squarci magnifici ne Le soulier de satin e Parola e utopia: qui davvero tocchiamo la qualità formidabile dell'artigiano mago di parole catafratte in musica, di recita in trance. È questo forse il regno, bastava a questo la pietra filosofale del cineasta. Tanto che resta il dubbio: il dileguarsi tra noi poveri mortali, sarà anche l'azzardo alchemico di un nuovo clamoroso Quinto Impero?

di Michele Goni in Reti Dedalus (http://www.retididedalus.it/)

[1] Si prendano le pagine seguenti come la ricognizione non tanto di un'idea fondante la totalità dei film di Manoel de Oliveira, quanto piuttosto di temi singolari, talora portanti e ricorrenti, che risorgono a intervalli di tempo lungo una filmografia ramificata e a tratti misteriosa.

[2] João Bénard Da Costa, Aniki-Bóbó, 2004, all'indirizzo internet http://www.treccani.it/enciclopedia/aniki-bobo_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

[3] João Bénard Da Costa, cit.http://www.treccani.it/enciclopedia/aniki-bobo_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

[4] João Bénard Da Costa, cit.http://www.treccani.it/enciclopedia/aniki-bobo_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

[5] A questi temi ne va aggiunto a mio avviso anche uno soggiacente, già affacciatosi in Douro, lavoro fluviale: quello dell'intimidazione autoritaria. Non sarà un caso quell'apparizione improvvisa e minacciosa in entrambi i film di poliziotti che spaventano i personaggi con la loro entrata in scena, evidente richiamo simbolico al rigido clima di controllo sotto cui vive il Portogallo del tempo.

[6] Vedi il Padre Vieira protagonista di Parola e utopia (2000).

[7] “Il abordait avec la même fraicheur intellectuelle les oeuvres de Madame La Fayette, de Flaubert, de Claudel et la matière mélodramatique du XIXe siècle [...] les sermons de père Antonio Vieira et un roman d'Augustina Bessa-Luis, sa principale source et son amie. Il a tiré le plus grand profit des thèmes les plus sombres du romantisme, sans perdre son sang-froid: Ann Radcliff, Balzac, Dostojevski et, plus directement, Camilo Castel Branco, son inspirateur le plus ancien, ou leur successeurs, Àlvaro de Carvalhal, Raul Brandäo, et José Régio qui fut aussi son ami”. Alain Masson, Hommage – Manoel de Oliveira 1908-2015 – Façon de Portugal, Positif del maggio 2015, p. 66.

[8] La battaglia tra le truppe marocchine e quelle comandate da don Sebastiano che fu causa della morte, o meglio, della sparizione del re, restando così alla base del suo mito.

[9] Giulia Lanciani, Il sebastianismo: un sogno che nasce come logos, p. 341, documento in pdf reperibile all'indirizzo internet http://cvc.cervantes.es/literatura/aispi/pdf/09/09_337.pdf.

[10] “Invaso il paese dal duca d'Alba, coronato Filippo II di Spagna come re di Portogallo, resta al patriottismo portoghese la speranza che il Desiderato torni a ristabilire la sovranità nazionale. E la speranza si converte in mito, il mito dell'Encoberto. È il re occulto, il re velato, forse fuggito in terre lontane, forse prigioniero, ma che tornerà in un mattino nebbioso in sella al suo cavallo bianco per farsi capo universale del nuovo Impero”. Giuliana Lanciani, cit., p. 341.

[11] Il sogno del ritorno del re è intriso anche dell'auspicio di una rifondazione integrale della civiltà e dell'uomo portoghesi: “Ecco allora che i fatti storici negativi (come Alcácer Quibir e la scomparsa del re in battaglia) si trasformano in elementi archetipici della capacità di palingenesi di fronte alla sconfitta, rinascita che non si arresta alla dimensione concreta di rinnovamento storico, ma va fino al rinnovamento spirituale dell'uomo portoghese e della sua patria, che dovrebbe portare al Quinto Impero, concepito in termini terreni e spirituali”. Giuliana Lanciani, cit., p. 341.

[12] Giuliana Lanciani, cit., p. 340.

[13] Il film, rieditato in tempi successivi, circola oggi con un doppio finale: quello emendato dal regime, dove i soccorritori, messi a parte i loro contrasti, si adoperano con successo per il salvataggio del ragazzo; e quello originale voluto dal regista (e che ai tutori della morale di Stato dovette apparire inammissibile), dove le divisioni tra i soccorritori impediscono il buon esito della missione di salvataggio.

[14] Francesco Saverio Niso, Manoel de Oliveira – Cinema, parola e politica, Genova, Le Mani, 2012, p. 196.

[15] Jean-Loup Passek [a cura di], Le cinéma portugais, Paris, Centre Pompidou/L'Equerre, 1982, p. 173, citato in Francesco Saverio Niso, cit., p. 113.

[16] “Il rituale è molto significativo. Oggi, per esempio, non si fa più uso del cappello. Nel tempo, quando ci si incontrava per strada, ci si levava il cappello. Come gesto non valeva niente, come rito molto. Si tratta a mio parere del principio cinematografico. Questo movimento è la continuità del rituale. Se non conosciamo il significato, il movimento è inutile. Bisogna comprenderlo. Ecco cosa fa la grandezza del cinema giapponese, il fatto che è pieno di rituali [...] Io sono stato molto segnato dal cinema giapponese. Penso che anche il cinema giapponese abbia dato un'enorme quantità di cose al cinema europeo”. Antoine de Baecque – Jacques Parsi, Conversations avec Manoel de Oliveira, Paris, Cahiers du Cinéma, 1996. Citato in Francesco Saverio Niso, Op. cit., pp. 170-171.

[17] Roberto Turigliatto – Simona Fina [a cura di], Amori di perdizione. Storie di cinema portoghese 1970-1999, Torino, Lindau, 1999. Citato da Francesco Saverio Niso, cit., pp. 113-114. Alla fine “si può dunque affermare che tutti i film citati, e il complesso dell'opera del cineasta lusitano, siano ispirati da una «piccola metafisica della parola»”. Francesco Saverio Niso, cit., p. 114.

[18] Francesco Saverio Niso, cit., p. 138.

[19] “Ho una posizione, per così dire, di dubbio religioso, di fronte al dubbio religioso, ma al contempo provo il bisogno di trovare la fonte di tutto ciò, vale a dire provo il desiderio di trovare un regno del quale non possiamo sapere se un giorno lo raggiungeremo”. Francesco Saverio Niso, cit., p. 205.

[20] Tali riferimenti, presenti già in Aniki-Bobo (in particolare nel rapporto uomo-donna raffigurato nel gioco dei due bimbi), si infittiscono in film come Atto di primavera, Il passato e il presente, Benilde o la vergine madre e Parola e utopia.

[21] Il rimando alla valenza religiosa del mito viene dallo stesso regista: “È quella vecchia storia di Platone: prima della creazione, uomini e donne erano uno solo, poi furono separati come due metà di un'arancia. Ma vogliono tornare ad unirsi. Trovare l'altra metà. Il sesso invoca l'androgino... [...] Mentre la presenza reale separa. Separa più della nostalgia. In fondo, tutti vogliono realizzarsi in Dio. È sempre, sempre la stessa storia”. Roberto Turigliatto – Simona Fina [a cura di], Amori di perdizione, Storie di cinema portoghese 1970-1999, Torino, Lindau, 1999. In Francesco Saverio Niso, cit., p. 204.

[22] Rinforza l'ipotesi Francesco Saverio Niso, accreditando il richiamo alla teologia dei primi pensatori greci così come li concepiva Werner Jaeger, i quali concepivano “tutta l'esperienza di Dio rivolta e orientata verso la realtà […] nonché scaturita da una multiforme visione mitica del mondo, i cui aspetti si mutano e, per così dire, si rettificano con sempre nuove intuizioni”. Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 273. In Francesco Saverio Niso, cit., p. 204.

Giacomo Natta, negato alla stabilità

Il sedici maggio 1960 moriva in Roma, ospite, quasi a riconfermare la sua assoluta instabilità, lo scrittore ligure Giacomo Ferdinando Natta. Era nato a Vallecrosia (IM) il 17 gennaio 1892 a un passo dal confine col Nizzardo. Ma al contrario del Mohamed Scheab del suo amico Ungaretti, non era “figlio di emiri” e non solo parlava il francese, ma si sentiva francese. Di cultura e di sentimenti. Ma come l’amato Montaigne, non amava Parigi, grigia e maleodorante, ma la luce tenue e dorata del golfo di Nizza, la Promenade des Anglais, il Capo d’Antibes di fronte all’Isola di Saint Honoré. Negato alla stabilità, come dimostrano i suoi passaporti affollati di visti, di continui passaggi di frontiera, era a suo agio nel frequentare più luoghi e più ambienti. Dalla Francia, dov’era stato precettore presso una ricca famiglia borghese, alla Svizzera dov’era stato segretario del grande psicoanalista e sessuologo Hirschfield, a Firenze, dove aveva frequentato con discrezione il circolo degli intellettuali che si dividevano fra i caffè delle Giubbe Rosse e il Paskoski, ai tempi di Lacerba, di Palazzeschi, di Dino Campana, di Soffici, di Montale, di Carlo Betocchi e di tanti altri poeti, scrittori, pittori come Rosai. Di quegli anni serbava un ricordo nitido e ironico. A Campana aveva dedicato uno splendido racconto, pubblicato su L’Approdo di Betocchi, a Roma si era stabilito verso la fine degli anni ’30, non senza improvvise assenze e non meno imprevedibili ritorni, durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e i due decenni successivi, traducendo per editori, per la radio, facendo consulenze editoriali o correggendo poesie altrui alle quali non esitava aggiungerne dei suoi, estemporanei e dei quali mai avrebbe rivendicato la paternità. Le sue dimore erano state raramente gli hotel, più spesso camere d’affitto, piccole pensioni, come quella della moglie del giornalista Felice Chilanti, a un passo da Piazza di Spagna. E quello era, appunto, il suo luogo, fra il Caffè Greco e la sala da te Babington. Di quelle residenze temporanee, quasi soste ombrose in un deserto assolato, parlava con humor e ironia, ne dipingeva gli interni, tracciava i ritratti delle buone signore che le conducevano. Spesso vedove bisognose d’affetto oltre che di quattrini, materne o al contrario, invadenti e irritanti, quasi sempre rese indulgenti di fronte alla sua disarmata povertà. Di una, in particolare, vedova di un noto architetto pontificio, faceva un ritratto a tutto tondo, nel quale erano compresi, come in una colonna sonora, i litigi con la sorella nubile, sventata e vogliosa e gli annunci trionfali di una prossima “grande esposizione delle opere di mio marito, il grande Beguet, che lascerà stupito lei che con quello straccio d’intelligenza che g’ha – la signora era meneghina – a mala pena riesce a campare”. Una volta che era tornato nella casa per ritirare una valigia lasciata in pegno per morosità, era stato accolto dalla sorella nell’ingresso in ombra. “Vostra sorella?” – aveva chiesto. E lei: “Mia sorella è morta, è lì, fra due ceri...”. E subito, allungando la mano: “E l’uccello, come sta?” Naturalmente non era vero niente, la sorella era viva e vegeta e più aggressiva che mai. Di un’altra, nizzarda, Madame Bernolet veuve Bricol, raccontava l’ossessione maniacale per la sporcizia degli ospiti e dei cani, che la spingeva a controllarne le deiezioni confrontando quelle che credeva di trovare nella sua casa o nel suo giardino. “Ça c’est trop fonsè, gli aveva detto una volta, c’èst pas a vous”, assolvendolo temporaneamente da ogni sospetto. A Roma, nell’appartamento di un palazzo prossimo a Piazza Venezia ebbe una strana avventura, nella quale fui coinvolto marginalmente anch’io. Gli era stato offerto di abitarvi temporaneamente (tutto ciò che lo riguardava era irrimediabilmente temporaneo e provvisorio), ma ignorava la vera identità del suo proprietario, conosciuto occasionalmente nella trattoria da Toto in Via Mario dei Fiori. Accadde che una notte, la porta d’ingresso si aprì silenziosamente e che alcune persone entrassero nell’ampio ingresso e nel salotto. Le sentì sostare davanti alla porta della camera da letto, bisbigliando, e dopo qualche istante sentì la porta richiudersi alle spalle degli sconosciuti. Pensò a dei ladri, ma lo insospettì che tutto fosse rimasto in ordine e che nessun oggetto fosse stato asportato. La visita si ripeté per due, tre notti consecutive, finché una notte, rientrato più tardi del solito, si trovò di fronte due signori accomodati su due poltrone. Salutò com’era sua abitudine e, prima ancora che aprisse bocca, fu rassicurato da quello che sembrava il più autorevole dei due. Gli spiegò che lui e il suo collega erano agenti della polizia politica incaricati di rintracciare e, se possibile, arrestare il proprietario dell’appartamento. Si trattava di un pericoloso fascista repubblichino, già Moschettiere del Duce, scampato alla fucilazione alla quale era stato condannato da un Tribunale del Popolo nei giorni successivi alla Liberazione. Non c’erano sospetti sul suo conto, gli chiedevano semplicemente se lui, lo stimato prof. Natta (dissero proprio così), poteva essere loro d’aiuto. Natta disse di non sapere niente di preciso sul suo ospite e che, se glielo avessero chiesto, avrebbe abbandonato l’appartamento immediatamente. “È meglio che rimanga, non vogliamo suscitare i sospetti del ricercato”, dissero, prima di lasciare la casa. Quella notte il sonno era stato più sereno del solito. L’indomani, da Babington, mi raccontò la sua avventura e mi chiese se non volessi io sostituirlo, avendo già lui trovato alloggio in una pensione del Babuino. Il gioco mi divertiva, accettai e, munito di chiave, a notte alta mi ricoverai nell’appartamento. Non successe niente. Ma al mattino il portiere mi avvertì che due signori avevano chiesto di me e che era meglio che mi recassi al Commissariato di polizia per chiarire la mia situazione. Lo feci immediatamente, risposi alle poche domande che mi vennero fatte e fui pregato di non frequentare ulteriormente l’appartamento. Seppi qualche mese dopo che il ricercato era stato arrestato e che la pena gli era stata commutata in qualche anno di carcere. Il francese era la lingua che Natta amava più di ogni altra, quella del cuore, e soprattutto della sua intelligenza. Dalla sua penna l’italiano, del quale aveva una padronanza assoluta, usciva come rinvigorito, sottratto alle facili mollezze estetizzanti che troppo spesso lo affliggono. Non ne faceva un vanto, ma ne era consapevole. Si era formato alla scuola dei libertini e dei moralisti, diceva, con una preferenza per questi ultimi, fra i quali amava cogliere affinità e differenze. Fra la carnalità dei primi e il deserto dei sentimenti dei secondi, mostrava di preferire il secondo, non senza nostalgia della prima. La Rochefoucauld era il suo mentore. Alle sue Maximes ricorreva ogni volta che i sentimenti minacciavano di mistificare la realtà. Diceva che il Marchese lo aveva reso “arido come un cardo” e, mentre ne consigliava la lettura, non mancava di mettere in guardia dalle sue conseguenze. Amava anche Saint-Beuve e i suoi Portraits che non si stancava di rileggere nella memoria, avvezzo com’era a non più frequentarne le pagine. Verso le quali non nascondeva una certa riluttanza che lo aveva indotto a preferire di “scrivere nell’aria”, disteso sul letto col viso rivolto al soffitto. Con quella penna ideale aveva riempito interi volumi, aggiungeva, con la sua solita, fine ironia. Quella che gli sciocchi gli rimproveravano, senza accorgersi che era proprio l’ironia che lo induceva a mitigare i suoi giudizi, a renderlo indulgente verso l’insipienza altrui.

di Ignazio Delogu (1928 – 2011) in Reti Dedalus (http://www.retididedalus.it/)

Per una bibliografia:

Giacomo Natta, Il cappotto di Dino Campana

… Enzo Maiolino è stato anche un uomo di cultura: un ricercatore appassionato con il “culto” della testimonianza e della memoria. Vanni Scheiviller ha sottolineato “il suo straordinario fiuto di segugio nella ricostruzione di un personaggio come Giacomo Natta, “l’amico Natta” (Questo finirà banchiere, Milano 1984)..

1 – Giacomo Natta, Questo finirà banchiere: racconti / Giacomo Natta; ricordo di Giacomo Natta a cura di Enzo Maiolino – Milano: All’insegna del pesce d’oro, 1984 2 – Pierre Gascar, Le bestie [traduzione dal francese di Giacomo Natta – Torino: Einaudi, 1955 (Tip. F. Toso) 3 – Giacomo Natta, Bordighera, Biblioteca civica internazionale, a cura di Enzo Maiolino [S.l. : s.n., 1986?] (Vallecrosia: Tipografia Visentin) 4 – Giacomo Natta, Il cappello stanco [a cura di Camillo Sbarbaro…] [… dopo il 1957] – Genova: Lombardo 5 – Gérard de Nerval, Conoscere Retif de la Bretonne; a cura e con introduzione di Giacomo Natta – Roma, Organizzazione editoriale tipografica, [1945?] 6 – Giacomo Natta, L’ospite dell’Hôtel Roosevelt; prefazione di Giuseppe Ungaretti – Milano: Edizioni della meridiana, 1953

Azioni partigiane ai primi di settembre 1944 tra Val Roja, Pigna (IM) e Bordighera

1.9.1944 Una pattuglia del IV Distaccamento della V^ Brigata (della Divisione d'Assalto Garibaldina “Felice Cascione”) in agguato sulla rotabile di Val Roja sbrindellava un camion tedesco e metteva fuori combattimento alcuni soldati di guardia.

2.9.1944 Distaccamenti della V^ Brigata combattono oltre Pigna. A Dolceacqua colpi di cannone dei partigiani hanno messo fuori combattimento due carri armati tedeschi tipo “Tigre”. I tedeschi hanno abbandonato diverse zone. Una squadra del Distaccamento Comando della V^ Brigata, dopo aver fatto un'azione di cannoneggiamento sulle posizioni tedesche di Dolceacqua, attaccava sulla rotabile Pigna-Isolabona un'ottantina di tedeschi, che tentavano di passare il ponte rotto per entrare in Pigna. Dopo parecchie ore la squadra ripiegava perché i tedeschi abbandonavano la zona. Da parte tedesca tre morti e diversi feriti. Per quanto riguarda i partigiani, veniva preso prigioniero il Vice Comandante “Fuoco” e si registravano due feriti.

3.9.1944 Il VI Distaccamento della V^ Brigata disarmava nei pressi di Bordighera una postazione tenuta da un presidio della S.S. italiana. Venivano catturati 18 militi e tutto il materiale d'armamento costituito da 3 mortai da 81 mm con relative munizioni, 5 armi automatiche e 4 mitra, tutti con relative munizioni. Nella notte una squadra del Distaccamento IV della IV^ Brigata penetrava nel campo di concentramento di Vallecrosia riuscendo a liberare 88 prigionieri politici, fra cui 8 donne.

Stralcio da documenti ufficiali d'epoca della II^ Divisione Garibaldi “Felice Cascione”, da “L'epopea dell'esercito scalzo” (a cura di Mario Mascia – ed. A.L.I.S.)

Da Zanzibar, un camporossino il 28 agosto 1888

ZANZIBAR, 28 agosto 1888

Amatissimi Genitori

Già stavo pensando che cosa ne sarà della mia famiglia; ma finalmente ricevetti notizzie che mi sollevarono il cuore. Non sapete miei cari genitori la gioia e contentezza ch’io nutro, quando ricevo notizzie da voi, e del paese sebenché siano pocche ; pare che si ripresentino d’avanti quell’anime ch’io lasciai alla casa paterna; e anche lontano lontano io sia da voi; il mio cuore e il pensiero è sempre da viccino, mi duole assai non poterci essere fra noi un più continuo scambio di notizzie motivo di cui è la lontananza che ci divide e perciò v’invio una presente credo che possa in certo modo darvi una prossima idea del paese di Zanzibar e suoi contorni. Zanzibar stato ancora indipendente è governato da un Pasciá comunemente chiamato Sultano; è compreso nella Zona Torrida ed in numero di latitudine Sud entrando in porto di notte e specialmente esse quando sono direste in un piccolo Parigi tanto che echeggia la luce in vari punti del paese, e sopratutto nel palazzo del Sultano; ma questa beltà vi rende ben tosto illusi allo spuntar dell’ Aurora in cui l’occhio in lungo d’aspetarvi quello che figuravi, gli si présenta din’anzi le tracce di un paese selvaggio ove la civiltà sta ancora sepolta. A pochi passi dal mare sorge nel mezzo di una piccola Piazza il palazzo Reale a 3 piani sporgenti ……… e terrazze e sorrette da colonne sovraposte l’una dall’altra. Dinanzi al medesimo si eleva un ‘altra torre la quale compie gli uffici di orologgi publici e di semaforo. Semaforo s’intende un punto in cui rende avviso anticipato di provenienze di bastimenti. A destra e a sinistra è circondato da case che man mano che si allontanano dal palazzo del Sultano, si fanno sempre più rozze, finché terminano di ampie Capanne ricoperte di foglie di palme. Le strade strettissime e piene d’ogni mondizia e salano un puzzo talmente nauseante da subito rendervi nausea la discesa a terra. Nessun negozio è alquanto Cristiano se nonché due o tre piccole betole apartenenti ai Turchi sono i mezzi di passatem- po di alcune ore. Alla sinistra del palazzo del Sultano sono messe in comunicazione per mezzo di anditi altre case più piccole di proprietà del medesimo in cui trovarsi rinchiuse una gran quantità di giovanette a disposizione del Sultano e queste case sono chiamate Serraglio. Nessun può avere comunicazione colle donne del Serraglio, ad eccezione della servitù ivi destinata; ritenuto che esso è considerato come un tempio di schiave, o un vero monastero di Monache. Davanti a queste case per un lungo spazzio di terreno è costruito un giardino fiancheggiato dalla parte del mare da un vapore materiale, e dalle cui parti laterali sorgono moltissime fontane. Molte gabbie di ferro contenute da varie razze D’animaliers ferroci fanno seguito al giardino, ed in vicinanza al mare. Queste sono le uniche bellezze di Zanzibar, il resto vastissime pianure e verdeggianti abitate d’infinità di bestie ferroci. Di ogni speccie di frutta è abbondantissima fra i quali è da notarsi, gli Ananas, Dateri, Banane, Cacchi, Aranci ecc ed altri infiniti squisiti son il loro sapore. Zanzibar è atraversato in lontananza da un fiume il nome non lo so; pieno di Cocodrilli e frequentato da Leoni, Tigri, Pantere Leopardi, Scimie ecc Il Venerdì giorno riconoscente dai Turchi, più che la Domenica dagli Europei, e si rapresenta d’inanzi una giornata di Carnavale. Al colpo di un cannone alle ore 4 Antemeridiane, è il segnale dell’alzata della loro Bandiera; a quell’ora in poi gran parte di gente nere, incomincia a percorere i vicoli seguiti da rintocchi di tamburi e da pifferi, finché cerca di riunirsi sulla piazza de Sultano. Poi l’esercito del Sultano schierato sul d’avanti del palazzo composti di circa un migliaio, senza l’aggiunta del popolo che attende con impazienza l’arrivo del loro Sovrano. É inutile descrivere le loro armi da fuoco, perché da voi medesimi potrete bene immaginarvi, notando però essere la grande abilità e divertimenti il maneggio di bastoni e delle frecce. Allo spuntar del Sultano è subito intonato da alcuni indigeni composti in una specie di fanfara, Le marce che dai medesimi vengono suonate sono molto lontane dalle nostre, ma che quantunque diaboliche, si sente un’agradevole piacere nelle varie specie di strumenti che noi altri non conosciamo. Quindi il Sultano seguito da alcuni Individui suoi Sudditi, Prende a passare in visita la trupa ; compiuta in pochi minuti la visita tra le acclamazioni e gli aplausi Rientrando in casa, pago della sua funzione per la sua riconoscenza della festa si fa entrare nel Serraglio. Scopo della visita al così detto monastero, è di togliervi dal medesimo una fra le quali più simpatiche; la quale viene condotta dalle madamigelle nelle sale del palazzo e resta a disposizione di lui finché giunga il venerdì seguente: viene ricondotta la scambiata come una simile e così di seguito. Le donne esistenti nel Serraglio ammontano per quando ho potuto sapere ad una Cinquantina. Durante il giorno continuano le feste con accompagnamenti di musica e pifferi nella piazza del Sultano e vanno consecutivamente perdendosi all’inoltrarsi della notte. Il clima considerato la posizione Geografica e la stagione in cui siamo, è da notarsi una gran parte depresione di temperatura nel percorso della notte, però il Caldo s’avvicina sensibilmente. Continuando a descrivervi non voglio trala- sciare di dirvi due parole intorno agli usi e Costumi degli abitanti. I ricchi distinguon- si dai poveri , perché questi ricoprono solo in parte le loro Carni nere con lunghe Camice e di tutti i colori. Mentre i ricchi alla grande diferenza della finezza degli Abiti, aggiungono ; non solo avere completamente la persona ricoperta, ma anche calzano una qualità di stivallini chiamati sandalie. Nessuna bellezza distinguesi sia negli uomini che nelle donne essi son tutti di colore nero, ed hanno i capeli nerissimi e ricciuti. Non tutte ma in gran parte le donne hanno il naso atraversato da un perno di metallo lucente terminante ad una estremità di anello e dall’altro in una piccola palla. Quantunque mi sia affaticato a domandarne spiegazzione non rimasi contento; ma però non ho ancora finito la mia descrizione, per ora mi arresto e vi spiegherò meglio il rimanente al ritorno Se iddio …….. Ricevetti il giorno 8 di agosto notizie di voi inviatemi il 27 giugno , ma già io aveva una mia lettera in cammino dandovi notizie del mio viaggio. Non credette miei cari genitori che la lontananza che passa tra le mie notizie sia per mia trascuratezza, ma è soltanto perché la posta non parte che una volta al mese, perché tutti i postali che partono da Zanzibar spedisco le mie notizie benché si paghino 75 cent.mi ogni lettera. Ora per quanto posso dirvi che la salutte sia di me del S. comandante non dico che sia perfettamente buona ma c’è la passiamo ancora discretamente. Il nostro ritorno non sappiamo quando sarà, può essere fin da domani ma non si sa. Tanti salutti alla famiglia dell’amico Cavaré a tutti i miei parenti ed Amici ed un bacio ed un abbraccio a tutta la famiglia e passo a dichiararmi il Vostro Amatissimo ed Obbed. mo Figlio GIO:BATTA UN bacio al nonno

Dall’Archivio di Silvana Maccario di Camporosso (IM)

P.S.

L’estensore della lettera, di cui qui sopra viene riprodotta la prima facciata ed alla quale, a parte errori di comprensione, non sono state apportate modifiche, fu Sebastiano Raimondo, vulgo Gio.Batta (di Agostino e Celestina Piombo), nato a Camporosso (IM) … e morto a Genova il 25 luglio 1959. I suoi fratelli furono: Rosa (nata nel 1855), Teresa (nata nel 1857), Paolina (nata nel 1858), Giovanna (nata nel 1862), Costanza (nata nel 1871), Carlo (1867-1940). E a questo link si può leggere l’esito di analoga operazione compiuta per una precedente lettera da Zanzibar di Sebastiano Raimondo.

Da Zanzibar, un camporossino il 26 luglio 1888

ZANZIBAR, 26 luglio 1888

Amatissimi Genitori, Eccoci Carissimi Genitori ora che siamo noi giunti al luogo destinato; noi giungemmo il 21 Luglio alle 2 pomeridiane tutti sani e salvi; non posso dire di aver fatto un cattivo viaggio, ma nemmeno buono; ma basta; finché ci campiamo la vitta va sempre bene; ora per tanto Voglio narrarvi qualche cosa che ho vedutto durante il mio viaggio. Già voi sapete Caris. Genit. Che partimmo da Spezia il 10 giugno E giungemmo a Porto Saïd, Egitto il 16 dello stesso mese. Questa città e piantata sulla sabbia e vi è tutta pianura; la gente nativa di questa, sono nere; perché il calore comincia ad alterarsi. In questa città vi e qualche Italiano, e parechi francesi, in questa città Per quanto abbia veduto non ha nessun prodotto perché vi e tutta sabbia. Poi partimmo da Porto Saïd il 19 , ed entrammo subito nel canale di Suez, e vi abbiamo impiegato 22 ore, perché bisogna andare adaggio, oltre di questo bisogna fermarsi alle stazioni per lasciar passare altri bastimenti che anch’essi sono in canale, perche fuori delle stazioni, più di un bastimento non può passare atteso che il canale è stretto, e ogni distanza vi sono le machine che lavoravano ad ingrandirlo. Poi finito il canale giungemmo subito a Suez, e colá non si siamo nemmeno affermati, perché il console ne ha fatto preparare la carne, e quando passammo vi era già il battello pronto che l’ abbiamo imbarcato senza fermarci. Di li abbiamo avutto ancora 5 giorni di traversata, che giungemmo poi a Aden il 26 di giugno e lá cosa posso dirvi che vi faceva un caldo che non si poteva resistere. Di questa città non posso dirvi niente perché resta dietro a una montagna alla riva del mare vi e un mucchio di case come Camporosso; la gente son neri e portano uno straccio davanti, il rimanente son nudi; qui a Aden facciamo carbone e partimmo il 1 luglio imbarcando il Signor ( ?) Console Generale di Aden. Di la partiti che noi siamo, colpi di mare a più non posso ; e dopo 2 giorni siamo andati appoggiare in un isola chiamata…….( Raz Filuch ? ) per riparare la macchina, e ci restammo 24 ore. Dopo siamo partiti e al vedere galleggiare la povera Archimede; in fini partiti che noi siamo da Raz Filuch alla sera, all’ indomani a mezzogiorno abbiamo dovuto dare fondo in un’altra isola chiamata Tamrida, non potendo andare avanti dai colpi di mare che si prendeva da prora per temanza che non sfasciassero il bastimento. Dunque dopo altre 24 ore siamo partiti e di lí ; vi lascio che dire in coperta non si poteva abitare, dai colpi di mare che s’imbarcava, giù sotto si è privi dell’aria si patisce; infine che alla meglio giungemmo all’isola di ….?secce? Il giorno 12 luglio. Giunti li che noi siamo, facciamo carbone e qualche provista e ci rinfrancammo 4 giorni; e a dirvi la verità questa città e piccolissima ma è bella, e la sua bellezza dipende dalla grande e bella veggetazione che essa contiene, le colline son tutte adornate d’alberi di frutta buona a mangiare, e varie quantità di fiori, poi colà il calore comincia già a diminuire perché in queste parti ora siamo di marzo, dunque partiti di lì Il 16, e giungemmo a Zanzibar il 21. Di questa città non posso dirvi altro che d’intorno ha essa pure una bella veggettazione ma poi d’entro e brutta, per le contrade vi è un odore che vi leva il respiro, la gente son Neri quello si sa e vanno vestiti ancora a uso Cristiano, non come a Aden che metteva schifo a guardarli e qui vi e rischio a prendere le febbri. Il Comandante il giorno 22 ha letto l’ordine del giorno e disse di prendere ogni mattina il chinino, di guardarsi di non mangiare frutta guasta o acerba, e di andare a terra prima o dopo il tramonto del sole, di non bere acqua della città e di guardarsi dal mangiare a terra, perché sono vivande che possono attribuire le malattie non essendoci noi abituati. Ora in qualità agli affari del Console per alzar la bandiera di questo non si è ancora deciso niente, e nemmeno si sa qiuando si décidera, e quando sarà il nostro ritorno. La salutte al presente é ottima sia di me, che del mio padrone A. B. come spero che ringraziando Iddio sarà lo stesso di voi tutti; mi saluterette i fratelli del mio padrone specialmente il S. Domenico, B. e tutta la sua famiglia, e i miei parenti ed amici e i miei compagni, mio cognato sorella e un baccio alle nipoti e un baccio a a tutta la famiglia passo a dichiararmi il vostro Amatissimo figlio Gio:Batta

È già la terza lettera che vi scrivo da che son partito da Spezia e non ho ancora ricevutto nessuna risposta. Dattemi nuova di tutto ciò che avviene in Camporosso.

La mia direzione eccola qui

Al Ministero della Reggia Marina A Roma Per il Signor Raimondo Gio:Batta Imbarcato sull’Archimede Adio Adio

Dall’Archivio di Silvana Maccario di Camporosso (IM)

P.S.

L’estensore della lettera, di cui qui sopra viene riprodotta la prima facciata ed alla quale, a parte errori di comprensione, non sono state apportate modifiche, fu Sebastiano Raimondo, vulgo Gio.Batta (di Agostino e Celestina Piombo), nato a Camporosso (IM) … e morto a Genova il 25 luglio 1959. I suoi fratelli furono: Rosa (nata nel 1855), Teresa (nata nel 1857), Paolina (nata nel 1858), Giovanna (nata nel 1862), Costanza (nata nel 1871), Carlo (1867-1940).

Il Petrarca di passaggio nel ponente ligure

Dal XII-XIII secolo sia Ventimiglia (IM) che Porto Maurizio (oggi Imperia) entrarono come basi importanti nel grande fenomeno dei percorsi dei PELLEGRINAGGI DI FEDE. Per quanto l’argomento meriti approfondimenti, v’è anzi da dire che data la posizione è attestato, per RAGIONI STORICHE, il graduale venir meno dei PELLEGRINAGGI IN TERRASANTA, che notoriamente facevano leva sul sistema portuale e ricettivo di GENOVA; mentre per molto più tempo, nella CULTURA DEVOZIONALE CRISTIANA, perdurarono i PELLEGRINAGGI AL SANTUARIO SPAGNOLO DI S. GIACOMO DI COMPOSTELA.

PORTO MAURIZIO, al pari di VENTIMIGLIA, era geograficamente avvantaggiato, visto che i rispettivi PORTI potevano servire tanto i viandanti (magari più che PELLEGRINI, dei COMMERCIANTI o dei CROCIATI ancora impegnati nel proseguio delle campagne contro ARABI e poi TURCHI) quanto i “PELLEGRINI PER SANTIAGO”, dato che VENTIMIGLIA e PORTO MAURIZIO erano relativamente prossimi agli approdi della PROVENZA ed a quelle BASI PROVENZALI da dove prendeva via il I TRAGITTO PER SANTIAGO DI COMPOSTELA. Inoltre le due località si sarebbero presto trovate in una posizione ideale sia per gli spostamenti tra ROMA ed AVIGNONE, dopo che la CURIA PAPALE fu ai primi del XIV secolo costretta a prendere sede in questa cittadina francese. Altresì la posizione dei porti di VENTIMIGLIA e PORTO MAURIZIO continuava ad essere eccellente per quanti, dalle SPAGNA, dalla FRANCIA o dallo stesso NORD-OVEST EUROPEO, ambivano a far PELLEGRINAGGIO verso OSTIA e quindi ROMA in conformità ai dettati sanciti da papa Bonifacio VIII nei dettami del suo GIUBILEO del 1300.

E’ assodata la TIPOLOGIA E TOPOGRAFIA DEGLI OSPITALI DI VENTIMIGLIA E CIRCONDARIO: si è anzi ricostruita la significanza della STRADA MARENCA DEL NERVIA e parimenti si è notato che questa aveva il suo naturale referente ben oltre la “Padania”: sino al territorio di SUSA, all’Abbazia della Novalesa e quindi ad uno di quei grandi OSPITALI DI TRANSIZIONE TRA AREE GEOGRAFICHE DISTINTE, che era l’OSPEDALE DEL CENISIO.

Anche PORTO MAURIZIO, come detto, aveva alle sue spalle una STRADA MARENCA (peraltro riprodotta ancora nel XVIII secolo in una CARTA del suo “Atlante del Dominio di Genova da M. Vinzoni) e ad essa i tragitti dall’area di susina potevano pervenire in contemporanea con quelli sul territorio ventimigliese. Al terminale meridionale di questa strada, sul mare, dovevano esservi degli OSPEDALI simili a quanto segnalato per VENTIMIGLIA: essi dovevano funzionare sia per COMMERCIANTI, che per CAVALIERI e PELLEGRINI.

Nel caso di PORTO MAURIZIO, su eventuali OSPIZI e sul PORTO, la documentazione al proposito più significativa non proviene però da documenti notarili ma da una EPISTOLA di uno dei più grandi letterati italiani di tutti i tempi: FRANCESCO PETRARCA (1304-1374). La lettera (appartenente al libro delle “Familiari”) fu stesa nel 1343 e venne indirizzata a Giovanni Colonna. Per i letterati essa ha sostanzialmente un alto valore morale volendo biasimare le “turpitudini della corte di Napoli” ma accanto a questo tema primario essa produce altre informazioni. Visto che nella prima parte costituisce il resoconto del viaggio marittimo intrapreso da PETRARCA, che lasciata AVIGNONE ed ancor più l’amatissima VALCHIUSA – due centri indissolubilmente legati all’immortale amore del poeta per LAURA NOVES DE SADE – raggiunse il mare onde per tal via portarsi a ROMA e quindi a NAPOLI, la LETTERA può essere presa come un assunto delle SU UN PARTICOLARE TIPO DI VIAGGIO DALLE GALLIE SINO ALLA CITTA’ SANTA. Nello specifico e per quanto di suo interesse FRANCESCO PETRARCA finì come quasi naturale per innestarsi sul GRANDE FLUSSO DEI VIANDANTI DELLA FEDE e nella circostanza sul I TRAGITTO, quello meridionale segnato dalla “GUIDA PER SANTIAGO DI COMPOSTELA” = IL VISITANDUM EST ovvero come qui si vede anche cartograficamente il TRATTO ROMA – ARLES – SANTIAGO DI GALIZIA (E VICEVERSA: CARATTERIZZATO DA PERCORRENZE SIA VIA TERRA CHE VIA MARE).

Scrisse in latino il poeta :”…Ti avevo promesso di fare il VIAGGIO PER MARE non per altro motivo se non per il fatto che mediamente si ritiene che si proceda meglio e con maggior rapidità per via di mare che per i percorsi terrestri“. Aggiunse quindi:”…imbarcatomi a NIZZA presso il Varo, che è la prima città d’Italia a ponente, giunsi a MONACO che il cielo era stellato“.

Le notazioni del Petrarca ci ragguagliano su convinzioni storiche assodate: i percorsi di terra – scomparsa in gran parte la VIA ROMANA JULIA AUGUSTA – erano disagevoli e il porto nizzardo costituiva una base storica per la navigazione verso l’Italia.

La navigazione era – cosa parimenti nota – di cabotaggio, con frequenti approdi per ripararsi e vettovagliarsi: la prima tappa fu però a MONACO E NON IN VENTIMIGLIA (fatto non del tutto chiaribile ma forse connesso al sopraggiungere di qualche mutamento di tempo, tale da suggerire un pronto riparo = Ventimiglia, nodo viario per eccellenza dei Pellegrinaggi in Liguria Occidentale, all’epoca aveva strutture e fama superiori a Monaco, per dar ricetto ed offrire utili alternative di viaggio a seconda delle esigenze e delle mete prescelte). Subito dopo infatti si legge:”…mi adiravo con me. Sostamme a Monaco di mal animo il giorno seguente, tentato senza successo di salpare“. Non alludendosi ad avarie di sorta è veramente da credere che il sopraggiungere di qualche fortunale abbia costretto la nave in quel porto. Ed a comprova di ciò, proseguendo nella lettura, si apprende che “...il giorno seguente, con tempo incerto, salpammo e sbattuti in continuazione dalle onde arrivammo a PORTO MAURIZIO nel pieno della notte“. La sosta al MAURITII PORTUM non dovette essere un espediente: da come scrisse il Petrarca, l’attracco sembrava previsto dal programma di viaggio. Egli aggiunse:”Non ci fu permesso di entrare nel castello. Trovata per caso in un OSPIZIO SULLA SPIAGGIA una cuccetta da marinaio condii la cena con la fame e fui debitore del sonno alla stanchezza“. Ed ancora: “a questo punto fui preso dall’ira e mi resi conto dei gran brutti tiri che fa il mare. Quindi fatti tornare sulla nave i servi coi bagagli, io solo con un compagno preferii restare sul lido di Porto Maurizio. Finalmente mi capitò un poco di fortuna. Fra quegli scogli liguri per qualche inspiegabile caso si vendevano dei CAVALLI TEDESCHI, forti ed agili. Non impiegai gran tempo ad acquistarli e rièpresi così il viaggio senza essermi del tutto liberato dalla nause del tragitto fatto per mare“. Anche se si tratta del PETRARCA, qualche sua considerazione è spocchiosa; ma, al pari di altri dati pur venati di letteratura, giungono tutte utili allo storico.

Anche se verisimilmente il PETRARCA soffriva lo scomodo viaggio per nave era questo comunque – nel giudizio di tutti – il modo migliore per giungere a ROMA: i servi ed i bagagli dovettero procedere per nave in quanto il percorso stradale, tanto accidentato, era impraticabile o quasi per chi fosse impacciato da mezzi pesanti od oggenti di ingombro. Il riposo fu preso sulla spiaggia di PORTO MAURIZIO in un “HOSPITIUM“: qualche traduttore corregge con ALBERGO, ma è difficile dire se si fosse trattato di un OSPIZIO PER PELLEGRINI o di uno di quegli OSPIZI RETTI DA PRIVATI di cui talora è giunta notiza. Il POCO CIBO cui fa cenno il PETRARCA, assieme alla menzione della CUCCETTA, potrebbe far pensare alla TIPOLOGIA di un OSPIZIO PER PELLEGRINI. Bisogna però tener conto che si ha pur sempre a che fare con un umanista, per casta dotto quanto narcisista ed abituato a certi lussi avignonesi: quindi non è da escludere il RICOVERO PRESSO UNA SORTA DI LOCANDA PRIVATA, al modo che in Ventimiglia tempo prima fece il nobile cortigiano spagnolo GIOVANNI DE PORTA (come verosimilmente tanti altri CAVALIERI E CROCIATI ED ANCHE PELLEGRINI DI FEDE).

Il Petrarca scrive di aver trovato, per caso, dei CAVALLI DI RAZZA in vendita. Se confrontiamo l’episodio con quello di GIOVANNI DE PORTA si direbbe invece che la COMPRAVENDITA DI CAVALLI era quasi un fatto istituzionale nei PORTI, sia a Ventimiglia che a Porto Maurizio. La ragione non sarebbe poi indecifrabile: i CAVALLI erano lasciati presso gli OSPIZI per varie ragioni: per cambiare a costo minimo animali freschi con altri pronti per il viaggio, erano commerciati per le esigenze dei viandanti che potevano spendere (come GIOVANNI DE PORTA od il PETRARCA); ed ancora venivano allevati localmente da imprenditori e proprietari di ospizi privati per farne oggetto di vendita o di affitto a quei pellegrini che potessero permetterseli o dovessero, come GIOVANNI DE PORTA, lasciare il “percorso marino” per addentrarsi lungo una qualche via di penetrazione nell’entroterra. E’ infattibile ricostruire topografia e topologia dell’OSPIZIO visitato dal PETRARCA: l’unica certezza è che si trovava in prossimità dell’approdo: “LITOREUM HOSPITIUM”.

Stando alle rilevazioni archeologiche si può pensare che strutture di ricovero per pellegrini nel XIV secolo dovevano trovarsi proprio in “riva al porto” o comunque alla “Marina”: peraltro proprio alla foce del torrente Prino e nell’area di BORGO PRINO si son reperite le più antiche testimonianze di insediamenti nella zona.

Il ferimento del comandante partigiano “Leo”

Nell’agosto del 1944 gli alleati sbarcarono a St. Raphael vicino a Marsiglia. A sbarco consolidato, l’avanzata alleata si divise su due direttrici, la prima verso Marsiglia, composta principalmente dall’Armée d’Afrique francese; la seconda verso la Costa Azzurra e il confine italiano. Sulla riva destra del Var, prima di entrare in Nizza, l’avanzata si arrestò non per opposizione delle forze tedesche ma per scelta del comando alleato. La resistenza francese della Costa Azzurra insorse spontaneamente, quasi costringendo gli alleati a liberare Nizza e a proseguire fino a Mentone, che venne liberata ai primi di settembre 1944 riportando i confini all’anteguerra.

A Gattières, sopra Nizza, fu installata una scuola per l’addestramento di sabotatori, alla quale parteciparono diversi partigiani italiani; a Mentone vennero installate delle piccionaie di colombi viaggiatori che venivano impiegati nelle operazioni di spionaggio oltre le linee. Le “agenzie” di intelligence alleate (francesi, inglesi e americane) iniziarono a lavorare più in concorrenza fra loro che in collaborazione. Il nostro CLN assisteva con timore a queste azioni in “concorrenza”, perché mettevano in pericolo tutta l’organizzazione. … Il maresciallo Reiter fece accompagnare da due agenti in borghese la staffetta Irene (in questa versione dei fatti la persona, costretta dai nazisti a fare da esca per attirare in trappola i due partigiani) verso la casa di Vallecrosia, dove “Leo” e “Rosina”, ignari, aspettavano il ritorno di chi li aveva traditi. … “Leo” restò gravemente ferito. Ma anche i due agenti nemici versarono in fin di vita. “Leo” e “Rosina” fuggirono per vie diverse eludendo anche il successivo rastrellamento tedesco. “Leo” trovò rifugio nella clinica Moro sulla via Romana, dove venne medicato ma non ricoverato. Il partigiano Lotti, probabilmente avvisato da “Rosina”, o non so come, avvisò il nostro CLN di Bordighera che “un agente americano” era stato ferito e si trovava alla clinica Moro. Insieme a Renzo Biancheri “U Longu”, prelevammo “Leo” dalla Clinica Moro [n.d.r.: che era stata trasferita dal 2 gennaio 1944 a Villa Poggio Ponente di Vallecrosia] e lo portammo all’ospedale di Bordighera. Riuscimmo a ricoverarlo con un tragico stratagemma.

Per i ricoveri con ferita i medici dovevano dichiarare se la ferita era stata causata da scheggia di bomba o da colpo d’arma da fuoco. All’ospedale “Leo” venne curato da due medici che conoscevo bene, il dr. Giribaldi e il dr. Gabetti, e assistito dalla caposala, infermiera Eva Pasini. Il dr. Gabetti mi disse che difficilmente “Leo” sarebbe sopravvissuto e che quindi conveniva ricoverarlo come “ferito da colpo d’arma da fuoco” e non rischiare la vita quando la polizia fascista avesse preso conoscenza del referto. Così fu fatto: “Leo” fu ricoverato e gli vennero prestate le prime cure. ….

Renzo “Stienca” Rossi in GRUPPO SBARCHI VALLECROSIA < ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia – Comune di Vallecrosia (IM) – Provincia di Imperia – Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM) > di Giuseppe Mac Fiorucci

Mantegazza, igienista ante-litteram

Paolo Mantegazza (Monza, 1831 – San Terenzo di Lerici [La Spezia], 1910) si laureò in Medicina e fu patologo, antropologo, igienista, enciclopedista e politico. Straordinariamente avido di conoscenza e assolutamente ispirato ai dettami del positivismo, maturò la convinzione che il popolo dovesse usufruire delle recenti scoperte scientifiche.

Ciò lo rese attivo per quasi tutta la vita come autore di numerosi volumi a carattere divulgativo e letterario, oltreché di libri di viaggi.

Dopo la laurea intraprese un lungo viaggio in Europa e nel Sudamerica. Nel 1858 rientrò con la famiglia in patria e nel 1860 fu nominato Professore di Patologia all’Università di Pavia, dove si era laureato e dove fondò, primo in Europa, un laboratorio di patologia sperimentale.

Nel contesto della divulgazione fu un antesignano di temi abbastanza nuovi connessi alla Fisiologia ed alla riscoperta dell’essenzialità dell’Igiene. In particolare redasse e editò opere innovative collegate alla proposizione di salutari NORME IGIENICHE. Che dimensionò praticamente nell’organizzato sistema delle STRUTTURE POLIVALENTI PER I BAGNI MARINI, organizzate secondo il recupero dell’ancestrale idea nordica del KURSAAL (o SALA DELLE CURE), finalizzate al basilare assioma del vivere sano in tutti gli aspetti della vita domestica e lavorativa. Anche per il fatto che, pionieristicamente, affrontò il tema dell’educazione sessuale e del controllo delle nascite, vide condannare dalla Chiesa romana molte delle sue pubblicazioni, che vennero ascritte al pur sempre meno ascoltato Index Librorum prohibitorum.

Dal 1870 occupò la prima cattedra italiana di Antropologia a Firenze: qui creò la Società Italiana di Antropologia e un Museo antropologico-etnografico.

Nel 1865 venne eletto Deputato al novello Parlamento e nel 1876 Senatore. Anche come politico si impegnò in campo igienico-sanitario e oltre a far parte del Consiglio Superiore di Sanità collaborò a varie Accademie e Istituti Scientifici in Italia e all’Estero.