Duemila

Scrivo cose, non vedo gente

Dopo il mio post precedente, ho scambiato qualche messaggio con un altro utente di Mastodon, e una delle cose interessanti che ha citato è che “non possiamo cambiare i giudizi altrui, quindi è buona cosa ignorarli, nel senso di non farci condizionare”. Può sembrare un consiglio semplice, e più facile a dirsi che a farsi, ma mi ha fatto riflettere sulla mia esperienza in tal senso e su come sia possibile farsi condizionare negativamente dal giudizio altrui anche quando tale giudizio non è necessariamente negativo.

Mi ritrovo perciò ancora una volta a dover tirare in ballo i social. Ho già parlato di Facebook e di come mi abbia fatto passare la voglia di scrivere. Ora fra i mali di Facebook c’è anche quello, in comune a molte di queste piattaforme, di fomentare il narcisismo; personalmente però penso che Instagram sia peggio in tal senso. Nella mia eperienza Facebook (e Twitter, anche se non l’ho mai usato molto) sono principalmente malvagi perché permettono e incoraggiano l’azione immediata, del tipo che vedi o leggi qualcosa che non ti piace e instintivamente finisci col postare una risposta istintiva, spesso e volentieri sopra le righe: due clic ed è fatta, ancor prima di accorgertene la tua piccola invettiva contro la presunta ingiustizia di turno è online. Instagram invece è la piattaforma perfetta per sviluppare il proprio brand personale, dove curare la propria immagine pubblica e presentare al mondo questo surrogato di sé le cui caratteristiche, passioni e interessi sono accuratamente selezionati per attirare l’approvazione altrui.

Dopo essermene andato da Facebook, ero ancora su Instagram. La piattaforma non mi sembrava altrettanto dannosa, o perlomeno nel mio network su Instagram il rischio di eventuale inquinamento dovuto a razzismo gratuito, buongiornissimi cinquantenni, video virali e ciarpame vario era fortemente ridotto rispetto a Facebook. Però la mia esperienza utente si faceva sempre meno piacevole col passare del tempo, e non era solo la progressiva facebookizzazione di Instagram tramite l’introduzione della timeline algoritmica, pubblicità ovunque, funzionalità copiate dalla concorrenza e così via.

Poco prima di togliermi da Instagram, ero andato in vacanza per due settimane oltreoceano. Di regola ho sempre postato le foto delle mie vacanze sui social solo dopo essere tornato, perché, insomma, sbandierare ai quattro venti che al momento la mia casa è vuota e potenzialmente svaligiabile non mi è mai sembrata una buona idea. E così feci anche in quel caso: ho scattato tipo un migliaio di foto e, una volta tornato, avevo pianificato di pubblicare 5 o 6 post su Instagram, ciascuno per ogni tappa del mio viaggio, e corredarli con qualche commento sagace in linea con la mia irresistibile e unica personalità. Iniziai a farlo, ma trovavo il processo di selezione delle immagini per ogni post (più la scrittura di una descrizione soddisfacente) troppo laborioso, a tratti frustrante. Probabilmente fu la lettura di questo articolo a farmi prendere la decisione definitiva di lasciare Instagram. Certo, non ho mai neanche lontanamente raggiunto i livelli estremi descritti nell’articolo, tipo farmi condizionare la scelta e l’esito di una vacanza in base ai social. Però ho iniziato a chiedermi se alcune cose le faccio perché le voglio veramente fare oppure se le faccio perché, in fondo, poi mi piace quando le posto sui social e ricevo pubblica approvazione da quel presupposto fan club personale che diventa, nella nostra testa, la lista dei followers.

Alla fine decisi che, fra l’impoverimento dell’esperienza utente e questa tendenza a incoraggiare il mio (per quanto blando) narcisismo, su Instagram non ci volevo più stare. Interruppi la mia serie di post sulla vacanza oltreoceano dopo averne postati un paio, dissi addio ai miei contatti spiegando le mie ragioni, e ricominciai a vivere senza dover rendere conto a un pubblico, per quanto scelto e selezionato. Tale scelta si inserisce perfettamente nel mio percorso minimalista di eliminazione del superfluo, e infatti se ora mi leggete qui o su Mastodon è perché voglio comunicare con altri utenti su internet alle mie condizioni, non a quelle di qualche piattaforma commerciale che sfrutta ai limiti dell'assurdo le debolezze umane dei propri utenti.

Negli ultimi anni si è scritto e parlato molto di minimalismo, perciò immagino non ci sia bisogno di sprecare paragrafi su paragrafi per spiegare che non si tratta di una setta di eremiti vestiti come Steve Jobs che dormono per terra in monolocali privi di mobilio, ma piuttosto di un approccio – a mio giudizio alquanto salutare – che invita a vivere in modo più intenzionale. Essere minimalisti significa mettere in discussione quello stile di vita che ci vuole consumatori assidui e perennemente insoddisfatti, perché ci convince che saremo felici solo dopo il prossimo acquisto, il prossimo aumento di stipendio, il prossimo trasloco, la prossima vacanza, la prossima relazione amorosa e così via. Minimalismo vuol dire rifiutare di essere vittime della “sindrome del giocattolo nuovo” e di voler liberarsi di quella dipendenza dalle piccole dosi di dopamina che ci iniettiamo ogniqualvolta che ci procuriamo qualcosa di nuovo, sia essa concreta o astratta, ma i cui effetti estatici spariscono in fretta. E l'unico risultato a lungo termine di tutto ciò è quello di non essere mai contenti, rimependosi nel frattempo la vita, e non solo la casa, di cose inutili.

Insomma, il minimalismo non è solo una questione di seguire i consigli di Marie Kondo. Detto ciò, penso che non si possa definirsi veramente minimalisti e allo stesso tempo continuare ad avere una mole enorme di beni materiali: cosa è essenziale per vivere varia da persona a persona, ma nessuno – perlomeno (e tantomeno) vivendo in una società iperconsumista a cui siamo condizionati fin dalla nascita – ha un'attitudine naturale a possedere soltanto l'essenziale. Perciò ora vi racconto di come ho iniziato il mio percorso in questa direzione.

Personalmente non mi sono mai considerato un minimalista vero e proprio. Da un certo punto di vista pensavo di essere immune a certi atteggiamenti, perché ho sempre avuto comunque uno stile di vita abbastanza frugale: non mi è mai interessato avere il macchinone, i vestiti di marca, gadget costosi e così via. Sono il tipo di persona che ha solo due set di biancheria da letto e che rimpiazza qualcosa solo quando si rompe, per dire. Quando mi sono trasferito all'estero un decennio fa, mi sono portato dietro soltanto tre valigie, che contenevano per lo più vestiti; ma quando ho cambiato casa un'anno dopo, ho dovuto riempire una macchina fino all'orlo con tutta la mia roba. E quando mi sono trasferito di nuovo tre anni dopo, ho dovuto fare avanti e indietro tre volte con la macchina, prima di finire di spostare tutto. Magari non compro qualsiasi cosa vada di moda, ma chiaramente la mia “frugalità” non mi ha trattenuto dall'acquisto continuo di libri e fumetti, per non parlare di fascicoli, appunti, opuscoli, volantini, poster o souvenir accumulati andando in giro a conferenze o eventi o in vacanza.

Qualche articolo sul minimalismo che ho letto nel 2018 o giù di lì ha iniziato a farmi riflettere su tutto ciò. Non solo mi sono reso conto che anch'io ero finito con l'accumulare roba che non mi serviva, ma anche che come persona e lavorativamente ero insoddisfatto perché ero sempre in attesa della “next big thing” prima di permettermi di essere felice – proprio come quelle masse ignoranti vittime del consumismo di cui pensavo di essere tanto migliore. Dal punto di vista dei beni materiali, ho iniziato a fare un po' di pulizia: sapevo che qualcuno nella biblioteca della mia città era interessato a creare una zine library, perciò ho donato quasi tutta la mia collezione di fanzine a loro. Per quanto riguarda la mia collezione di fumetti, ne ho donati un bel po' alla comics society dell'università che frequentavo, e molti dei miei libri sono finiti al charity shop. Pur non avendo una marea di vestiti, mi sono liberato di varia roba vecchia che tenevo da indossare per andare nell'orto – ma che era troppa anche solo per quello.

Devo ammettere che la sensazione di liberarsi di tutta quella roba – a cui fino a poco tempo prima pensavo di essere affezionato a tal punto che non avevo alcuna intenzione di rinunciarci – è stata di gran sollievo, quasi estatica. In realtà non ho finito, e ho ancora vari oggetti teoricamente inutili a cui sono ancora attaccato emotivamente, ma essendo l'atto di minimizzare un processo continuo non escludo di liberarmene in futuro. Di recente ho traslocato di nuovo, e al momento sono in una sistemazione temporanea in cui ho dovuto portare con me soltanto l'essenziale – infatti la maggior parte della mia roba l'ho dovuta impacchettare e metterla via in un magazzino a cui non ho accesso immediato. Devo dire che si tratta di un esercizio utile, dato che – come volevasi dimostrare – quello che ho messo via nel magazzino (qualcosa come il 90% dei miei averi) in realtà non mi manca e non mi serve, e probabilmente quando sarà ora di spacchettare penso che la prenderò come un'ulteriore occasione per continuare il processo che ho iniziato.

Come dicevo all'inizio, però, il minimalismo non è solo “decluttering”, ma per il momento mi fermo qui tornerò sull'argomento per parlarne anche sotto gli altri punti di vista che non ho trattato in modo approfondito in questo post – ed eventuali aggiornamenti sulla mia esperienza.

Dopo gli episodi precedenti in cui parlavo di come il mio (buon) rapporto con la scrittura era entrato in crisi dopo essermi trasferito all'estero e aver sprecato una marea di tempo e risorse cognitive su Facebook, in questo post spiegherò come gli ho dato il colpo di grazia entrando nel mondo del digital marketing.

Dopo alcune esperienze lavorative poco interessanti e senza sbocchi, a un certo punto trovo un lavoro in cui mi pagano per scrivere, ogni giorno, in italiano, e all'estero – quindi per una paga più che degna. Non solo: fra le altre cose devo anche creare immagini con Photoshop per poi postarle su Facebook e Twitter. Insomma, mi pagavano per fare cose che fino al giorno prima facevo per diletto nel tempo libero! Una di quelle confuciate del tipo fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita, insomma. In realtà ero cascato nella trappola per cui pensavo che facendo un lavoro in cui dovevo usare la mia creatività, sia come scrittore che come grafico, l'avrei trovato appagante. Sbagliavo.

In realtà mi ci è voluto un po' di tempo per arrivarci. Il lavoro in questione era per un tizio il cui modello di business era mantenere siti su lotterie, scommesse, casinò ecc. e riempirli di link a siti affiliati in cui mandare i malcapitati lettori a sperperare denaro. Dopo qualche mese di iniziale entusiasmo, in cui riuscivo persino quasi a ignorare il dilemma morale dentro di me, le cose avevano inziato a prendere una piega diversa: a dover scrivere sempre le stesse cose, di cui me ne importava meno di niente e che a essere onesti mi facevano abbastanza cagare, non mi dava alcuna soddisfazione. La noia a un certo punto iniziò a raggiungere livelli insopportabili, e lo schifo per quel che facevo cominciava a diventare difficile da ignorare. A ciò si aggiunsero preoccupazioni di natura personale e anche professionali, dato che a un certo punto mi ero reso conto che sti autoproclamati geni del digital marketing per cui lavoravo vivevano in una bolla e in realtà non sapevano un gran ché di quel che stavano facendo. Per cui a un certo punto mi sono licenziato e ho trovato lavoro altrove.

La mia seconda occupazione in questo settore era per un'altra azienda di digital marketing, anche in questo caso abbastanza piccola (e persino peggio gestita, come ebbi modo di scoprire), che però invece di avere siti propri lavorava con clienti esterni. In questo caso però avevano fra il personale quancuno di capace, che sapeva perlomeno le basi della Search Engine Optimization, content marketing e così via. Tutte cose che non ho avuto difficoltà a imparare e mettere in pratica, ma che mi hanno messo in una posizione per cui ero finito con lo scrivere più per far piacere a Google che non a eventuali lettori umani. E la deformazione professionale era divenuta tale che a un certo punto mi venivano da fare certe cose – tipo includere parole chiave nei link o fare in modo che ci fossero un tot occorrenze delle parole chiave di un testo – anche quando non scrivevo per lavoro. Anche in questo caso, la noia per i soggetti trattati – i clienti erano quasi tutti produttori di letti o catene di fast food – e la crescente insofferenza che mi stava venendo per i social media (che anche in questo lavoro utilizzavo quotidianamente) non tardò a prendere il sopravvento. Però almeno stavolta mi ero reso conto che fare un “lavoro creativo” non avrebbe stimolato la mia creatività, ma al contrario me l'avrebbe prosciugata completamente.

Risultato: quello fu il mio ultimo lavoro in digital marketing. Da quel momento in poi ho lavorato nel settore archivistico, che tuttora non smette di darmi soddisfazioni. Mi ci è voluto un po', ma alla fine ho capito – e trovato – quel che voglio fare lavorativamente. Ma il danno che ho inflitto al mio rapporto con la scrittura, facendo certe scelte lavorative o di vita rimane, non si è ancora risanato.

Ora vivo in un mondo molto diverso dall'ultima volta che scrivevo con totale naturalezza e piacere. Sono cambiato anch'io, la mia prospettiva sul mondo e sulle cose, ed è cambiato anche chi mi legge, e a chi mi rivolgo. Ma credo ancora nel ruolo terapeutico – e a modo suo redentore – della scrittura, per cui non ho intenzione di smettere di nuovo.

Grazie a chi mi ha letto finora, se vi va tenete d'occhio questo blog perché ho ancora varie cose di cui discutere. Per ora vi anticipo soltanto uno dei soggetti dei prossimi post: il minimalismo.

Nella puntata precedente avevo iniziato a chiedermi perché nel corso degli anni qualcosa è andato storto e ho iniziato a perdere per strada la capacità (e la gioia) di scrivere. Ho individuato una delle cause nel trasferimento all'estero e nel dovermi barcamenare fra due lingue diverse, a discapito di quella di cui sono madrelingua. Un'altra causa l'ho localizzata nell'uso che ho fatto dei social media durante lo scorso decennio, e proprio di questo parliamo in questo post.

Devo dire che si tratta di un argomento vastissimo, e ho dovuto pensarci un po' sopra per capire come affrontarlo senza andare fuori tema e finire col disctutere del mio rapporto coi social media più in generale. Alla fine penso che, per quando riguarda l'impatto che ciò ha avuto sulla mia capacità di scrivere, si tratti per lo più di un problema di audience – o di community.

Mi spiego. Anche prima dell'esplosione dei social commerciali, ero alquanto attivo online: avevo un blog su cui per lo più recensivo film e libri, e scrivevo su vari forum di appassionati di questo o quel fenomeno culturale che seguivo. In entrambi i casi, si trattava di scrivere in modo molto interattivo, dialogando attivamente con altre persone: ciò è abbastanza ovvio coi forum, ma anche per quanto riguarda i blog avevo scelto apposta di aprire il mio blog proprio su una piattaforma che incoraggiava l'interazione fra i membri della propria comunità, ovvero Splinder. In tal modo ho fatto amicizia con varie persone con cui ho condiviso interessi e interazioni significative, anche se non ho mai incontrato di persona la maggior parte di essi (a parte un memorabile raduno con i membri di un forum).

Ero anche attivo sulle piattaforme più propriamente social dell'epoca, ovvero MySpace e MSN Messenger, ma ne facevo un uso minimo. Di lì a qualche anno mi sarei iscritto a Facebook, che da strumento di supporto per altre cose che facevo su internet o nella vita reale è finito col fagocitare tutto. Ciò è accaduto a diversi livelli, ma principalmente si tratta di una storia che avrete già sentito un migliaio di volte: se all'inizio postavo su Facebook i miei blog post per promuoverli a un pubblico più ampio rispetto a quelli che già mi leggevano, di lì a poco sarei finito – sorpresa sorpresa – col trascurare sempre più il mio blog per passare più tempo a interagire dirattamente con i miei contatti su Facebook.

Ma visto che si parlava di audience e di community, un'altra grandissima fregatura è stata questa: su Facebook mi ero aggiunto gli amici che mi ero fatto nella vita reale o sui vari blog, forum ecc. che seguivo, lasciando insulsamente a questa piattaforma il monopolio della mia relazione con la maggior parte di essi. Per cui, nel momento in cui ho deciso di cancellare il mio account, ho perso contatto con molti di loro, con cui ormai non interagivo più in nessun altro modo. Insomma, è colpa mia che ho lasciato che Facebook monopolizzasse le mie risorse cognitive (e i miei contatti) invece di farne un uso intenzionale – del tipo continuare a scrivere qualcosa di articolato e ragionato con la tastiera del computer invece di postare pesunti motti arguti con lo smartphone, e di coltivare il dialogo con poche persone con cui voglio veramente rimanere in contatto invece di accumulare 700 contatti su un social network su cui non ho il minimo controllo di chi vede quel che posto.

Anche se ormai ho lasciato Facebook vari anni fa, per poi finire col chiudere profili anche su quasi tutte le altre piattaforme commerciali (ormai ho una presenza con nome e cognome solo su Twitter e LinkedIn), ciò mi ha portato alla situazione attuale. Anche se ho aperto questo nuovo blog, non ho più alcun interesse a spammare in giro la sua esistenza. L'unico luogo in cui pubblico i post è il mio profilo sull'istanza Bida di Mastodon, ovvero un posto fantastico che mi ha fatto riscoprire la gioia dell'interazione con una community di persone con cui perlomeno mi sento a mio agio condividere questi pensieri.

Nella prossima puntata: come scrivere con la spada di Damocle della Search Engine Optimization sulla propria testa, che ti fa passare completamente la voglia di scrivere.

Perché ho perso l'abitudine di scrivere? Fino a una decina d'anni fa avevo un blog personale e, dopo un percorso di studi in cui la scrittura era un aspetto preponderante, mi veniva più che naturale. In realtà mi è sempre piaciuto scrivere, e il feedback che avevo da chi mi leggeva – fossero essi i lettori delle mie cose più frivole pubblicate online oppure insegnanti e professori – era quasi sempre molto positivo. Perciò mi viene da chiedermi, cosa è successo da portarmi a un punto in cui non mi sento neppure più a mio agio a scrivere nella mia propria lingua?

Mi viene da trovare la causa di ciò principalmente in tre cose: il mio trasferimento all'estero, i social media e la mia esperienza nel settore del digital marketing. Queste tre cause ovviamente non sono separate a compartimenti stagni, anzi si sovrappongono un bel po' fra loro, ma proverò a considerarle separatamente, magari rimandando l'una all'altra quando serve.

Trasferendomi all'estero – per la precisione nel Regno Unito – per forza di cose ho dovuto mettere da parte l'italiano e concentrarmi sul diventare fluente in inglese. Ho avuto contatti italiani anche in Inghilterra, ma col tempo sempre meno, e avendo dal 2014 una partner inglese la mia immersione nell'inglese è oramai totale. Dopo dieci anni di questa full immersion sempre più esclusiva, immagino di cavarmela molto più che bene con l'inglese rispetto all'italiano medio, ma scrivere in questa lingua non ha mai smesso di mettermi a disagio. Voglio dire: lo so fare, ma non mi sono mai veramente adattato alle strutture dell'inglese. Con l'italiano sento di potermi sbizzarrire, di avere infinite possibilità di articolare quel che voglio esperimere come meglio preferisco; in inglese se sgarri l'ordine degli elementi del discorso – anche quando in teoria è grammaticalmente corretto – o scrivi una frase più lunga di 20 parole è finita. Con cio non voglio dire che non riuscirei a esprimere quel che voglio dire in inglese, inclusi concetti articolati: ci riesco, ma stilisticamente trovo la lingua inglese in sé un fattore estremamente limitante. E, paradossalmente, il fatto che è diventata per un decennio della mia esistenza la lingua principale con cui comunico praticamente con chiunque, ciò mi ha disallenato nell'usare l'italiano. Ovvero ora sento di non avere gran destrezza nemmeno con la lingua con cui, fino a un certo punto, non mi sono mai sentito in difficoltà, ma con cui adesso inizio ad avere qualche momento critico – per esempio quando mi vengono in mente modi di dire o costrutti linguistici inglesi che non hanno un immediato corrispettivo in italiano.

Non ho esaurito l'argomento ma per ora mi fermo. Tornerò a breve con la seconda puntata, in cui parlerò principalmente dell'effetto (negativo) dei social media sulla mia capacità di scrivere.