Il minimalismo non è (secondo me) una moda passeggera

Negli ultimi anni si è scritto e parlato molto di minimalismo, perciò immagino non ci sia bisogno di sprecare paragrafi su paragrafi per spiegare che non si tratta di una setta di eremiti vestiti come Steve Jobs che dormono per terra in monolocali privi di mobilio, ma piuttosto di un approccio – a mio giudizio alquanto salutare – che invita a vivere in modo più intenzionale. Essere minimalisti significa mettere in discussione quello stile di vita che ci vuole consumatori assidui e perennemente insoddisfatti, perché ci convince che saremo felici solo dopo il prossimo acquisto, il prossimo aumento di stipendio, il prossimo trasloco, la prossima vacanza, la prossima relazione amorosa e così via. Minimalismo vuol dire rifiutare di essere vittime della “sindrome del giocattolo nuovo” e di voler liberarsi di quella dipendenza dalle piccole dosi di dopamina che ci iniettiamo ogniqualvolta che ci procuriamo qualcosa di nuovo, sia essa concreta o astratta, ma i cui effetti estatici spariscono in fretta. E l'unico risultato a lungo termine di tutto ciò è quello di non essere mai contenti, rimependosi nel frattempo la vita, e non solo la casa, di cose inutili.

Insomma, il minimalismo non è solo una questione di seguire i consigli di Marie Kondo. Detto ciò, penso che non si possa definirsi veramente minimalisti e allo stesso tempo continuare ad avere una mole enorme di beni materiali: cosa è essenziale per vivere varia da persona a persona, ma nessuno – perlomeno (e tantomeno) vivendo in una società iperconsumista a cui siamo condizionati fin dalla nascita – ha un'attitudine naturale a possedere soltanto l'essenziale. Perciò ora vi racconto di come ho iniziato il mio percorso in questa direzione.

Personalmente non mi sono mai considerato un minimalista vero e proprio. Da un certo punto di vista pensavo di essere immune a certi atteggiamenti, perché ho sempre avuto comunque uno stile di vita abbastanza frugale: non mi è mai interessato avere il macchinone, i vestiti di marca, gadget costosi e così via. Sono il tipo di persona che ha solo due set di biancheria da letto e che rimpiazza qualcosa solo quando si rompe, per dire. Quando mi sono trasferito all'estero un decennio fa, mi sono portato dietro soltanto tre valigie, che contenevano per lo più vestiti; ma quando ho cambiato casa un'anno dopo, ho dovuto riempire una macchina fino all'orlo con tutta la mia roba. E quando mi sono trasferito di nuovo tre anni dopo, ho dovuto fare avanti e indietro tre volte con la macchina, prima di finire di spostare tutto. Magari non compro qualsiasi cosa vada di moda, ma chiaramente la mia “frugalità” non mi ha trattenuto dall'acquisto continuo di libri e fumetti, per non parlare di fascicoli, appunti, opuscoli, volantini, poster o souvenir accumulati andando in giro a conferenze o eventi o in vacanza.

Qualche articolo sul minimalismo che ho letto nel 2018 o giù di lì ha iniziato a farmi riflettere su tutto ciò. Non solo mi sono reso conto che anch'io ero finito con l'accumulare roba che non mi serviva, ma anche che come persona e lavorativamente ero insoddisfatto perché ero sempre in attesa della “next big thing” prima di permettermi di essere felice – proprio come quelle masse ignoranti vittime del consumismo di cui pensavo di essere tanto migliore. Dal punto di vista dei beni materiali, ho iniziato a fare un po' di pulizia: sapevo che qualcuno nella biblioteca della mia città era interessato a creare una zine library, perciò ho donato quasi tutta la mia collezione di fanzine a loro. Per quanto riguarda la mia collezione di fumetti, ne ho donati un bel po' alla comics society dell'università che frequentavo, e molti dei miei libri sono finiti al charity shop. Pur non avendo una marea di vestiti, mi sono liberato di varia roba vecchia che tenevo da indossare per andare nell'orto – ma che era troppa anche solo per quello.

Devo ammettere che la sensazione di liberarsi di tutta quella roba – a cui fino a poco tempo prima pensavo di essere affezionato a tal punto che non avevo alcuna intenzione di rinunciarci – è stata di gran sollievo, quasi estatica. In realtà non ho finito, e ho ancora vari oggetti teoricamente inutili a cui sono ancora attaccato emotivamente, ma essendo l'atto di minimizzare un processo continuo non escludo di liberarmene in futuro. Di recente ho traslocato di nuovo, e al momento sono in una sistemazione temporanea in cui ho dovuto portare con me soltanto l'essenziale – infatti la maggior parte della mia roba l'ho dovuta impacchettare e metterla via in un magazzino a cui non ho accesso immediato. Devo dire che si tratta di un esercizio utile, dato che – come volevasi dimostrare – quello che ho messo via nel magazzino (qualcosa come il 90% dei miei averi) in realtà non mi manca e non mi serve, e probabilmente quando sarà ora di spacchettare penso che la prenderò come un'ulteriore occasione per continuare il processo che ho iniziato.

Come dicevo all'inizio, però, il minimalismo non è solo “decluttering”, ma per il momento mi fermo qui tornerò sull'argomento per parlarne anche sotto gli altri punti di vista che non ho trattato in modo approfondito in questo post – ed eventuali aggiornamenti sulla mia esperienza.