MANOEL DE OLIVEIRA (1908-2015): Il movimento filmico totale del linguaggio parlato

QUINTO IMPERO L’encombrado Manoel de Oliveira[1]

L'ultima memoria vivente e fattiva del cinema delle origini si è estinta con la morte del regista portoghese Manoel de Oliveira. Sopravvissuto formidabile di una fine secolo, il XX°, che aveva mietuto a frotte grandi vecchi, il regista portoghese era rimasto sulla breccia sino quasi allo scadere del tempo. Era infatti del 2012 l'ultimo cortometraggio Gebo e l'ombra, tratto, come spesso i film di de Oliveira, da una pièce teatrale (nel caso O gebo e a Sombra di Raul Brandão, dramma sulla prima repubblica portoghese e sulla sua fine in prossimità dell'avvento ormai imminente di Salazar). De Oliveira ambienta però il dramma nella Francia contemporanea, ricucendolo come un amaro apologo: è il commiato avvilito di un cineasta che dopo aver sperimentato la sferza della censura salazarista e la seguente liberazione da essa, si trova a morire disilluso in un tempo in cui il mondo occidentale apparecchia già nuovi scenari post-democratici.

Inevitabile sarà anche il riferimento a quel Portogallo contemporaneo sconciato dalla crisi e alle prese con nerboruti burocrati e speculatori venuti da fuori a spartirsi i resti migliori, i brandelli di uno stato che fu. Niente di peggio, per chi viene da un tempo di illibertà che parevano scontate una volta per tutte, che finire da capo nella pressa di comandi astratti e feroci, impartiti questa volta non a suon di manganello o archibugio, ma con in pugno il bigino delle regoline degli euroeconomisti. Fermo restando che il quarantennio/cinquantennio salazarista e le sue purghe sono inemendabili, che dire però del cipiglio degli euroburocrati che smantellano a suon di intimazioni quanto resta dell'autodeterminazione di un popolo? Il regista vacilla di fronte a tutte le illibertà senza distinzione alcuna, poiché ammesso che la brutalità attuale non si esercita con violenza, non è detto che col tempo i suoi guasti non arrivino ad essere persino peggiori.

Non parrà allora strano che de Oliveira non tratti il caso storico con riferimento diretto al paese natale (come ad esempio fa Solanas ne Il diario del saccheggio [2004], ricognizione documentaristica sull'Argentina del dopo-crac che, liberatasi dalle asfissianti maglie del dollaro, piombava in una selvaggia dismissione di stato tra miseria e fame): perché così da sempre, in una storia che si chiude ciclicamente sul peggio, non resta che affinare un sapiente scetticismo.

Così era stato per tutto il secolo breve il quale, pur avendo stentato ad aprirsi, si chiudeva fulmineamente, in un giubilo di novità. Ma questo è solo il punto di arrivo, né è detto che per de Oliveira valga da consuntivo sbrigativo di un cammino ben lungo e assai articolato.

Procediamo per gradi.

De Oliveira nasce nel 1908, è quindi molto giovane quando il cinematografo si sta ancora facendo le ossa. È inoltre figlio di un ricco industriale e ama lo sport. Esordirà al cinema come attore in prossimità della fine del muto, per poi presentarsi nelle vesti di regista nel 1931, con Douro, lavoro fluviale, un cortometraggio realizzato come un poema visivo ad illustrare le attività lavorative sul fiume Douro e i dintorni della sua foce a Lisbona. Il corto è saturo delle suggestioni di Berlino – Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann, di cui riprende la movimentata illustrazione su accompagnamento musicale e il dimesso realismo, una scelta in contrasto con la vena più celebrativa di taluni corti di un Vertov. Tanto nel film di Ruttmann quanto in quello di de Oliveira, si ha l'impressione che il regista voglia darci a intendere di narrare solo ciò che capita lì per lì, senza volontà di piegare il vero ad un fine secondo, laddove gli analoghi film sovietici sono tutti presi dalla elaborazione di un mito palingenetico della giovane URSS. Ma, rispetto al pionierismo di Ruttmann, de Oliveira opera uno scarto.

Aniki bóbó (1942) è una favoletta in stile neorealista (con tanto di stile semi-documentarista e attori non-protagonisti) di amorucci infantili, nonché una prima sortita in campo allegorico. Ma l'intento del regista non è quello di raffigurare, come accade nei film neorealisti, squarci di realtà ripresi dal vero, l'idea è piuttosto quella di dipingere “il desiderio e il senso di colpevolezza, la paura e la gelosia, il rimorso e la punizione. Come lo stesso regista ha dichiarato, 'cercando di raccontare una storia semplice, volevo che i bambini rispecchiassero i problemi degli adulti, in loro ancora allo stato embrionale: la contrapposizione tra i concetti di bene e di male, di odio e di amore, di amicizia e di ingratitudine'”[2]. Il film è una specie di piccolo saggio su motivi tipicamente hitchcockiani che ritroviamo anche nel cinema del cattolico impersuaso de Oliveira: “il desiderio e il senso di colpevolezza, la paura e la gelosia, il rimorso e la punizione”[3]. In una bella lettura del film, João Bénard Da Costa mostra come già agli esordi sia soprattutto il cortocircuito paura-desiderio-castigo-liberazione a intrigare la fantasia di de Oliveira:

“Da questo punto di vista, la sequenza in cui Carlitos regala la bambola a Teresinha è prodigiosa. Il bambino la sorprende di notte, arrivando dall'alto (come un angelo o un diavolo) e la chiama mentre lei è già a letto (grazie a un cambiamento nell'illuminazione e nelle inquadrature, Teresinha appare in queste immagini più grande, come un'adolescente). Lei si alza, indossando una camicia da notte bianca, e accetta il regalo e la dichiarazione di Carlitos. Ma il momento culminante ‒ quello del bacio ‒ viene interrotto dalla caduta del ragazzo, con un'evidente connotazione sessuale. Colpevole di un furto, colpevole di uno 'stupro', Carlitos sarà poi accusato di essere un assassino. Quando la sua innocenza viene riconosciuta, restituisce la bambola (cioè si libera del furto) e 'sposa' Teresinha, liberandosi anche dello 'stupro'. L'immagine finale è quella di una coppia che porta a spasso il proprio figlio. Il film che ‒ dopo il prologo con il guaio combinato da Carlitos ‒ era iniziato con immagini che dal cielo scendevano verso la terra, nel suo finale risale dalla terra verso il cielo. La paura ‒- che possiamo intuire fin dal prologo ‒ proviene dal cielo stellato sopra le nostre teste o da questa terra dove la morale ci impone i suoi divieti e ci fa sentire costantemente in colpa?”[4].

Potrebbe essere un Marnie o un Under Capricorn, ivi compresa una certa prolissità di temi e simboli letterarii, e lo spiazzamento allegorico di età. Ma notiamo già qui un problema di fondo che riguarda l'idea di storia propria del regista: la storia è opera degli uomini e dei loro atti, o questi ultimi sono solo pedine e figuranti dentro una ribalta metafisica a tenuta stagna? È un'oscillazione che visita con regolarità i film del regista, contesa tra la rivisitazione integralmente teatrale e sacro-profana degli eventi storici, e una ricostruzione invece affidata a una riduzione interpretativa, in forma filosofico-allegorica, degli eventi[5].

Lontano dall'apparire un esordio in veste di realismo, troviamo quindi già in Aniki bóbó un corredo di temi ricorrenti. Essi si ripresenteranno intatti nei successivi riadattamenti cinematografici di una teatralità disadorna e primitiveggiante, persuaso il regista a rigettare da sé e dal suo cinema ogni forma di dissimulazione che serva da impressione di realtà. È fin d'ora chiaro, e si confermerà con accentuata ironia nel corso del tempo, che il cinema di de Oliveira è una messa in scena di idee animate, che si servono anche, a garanzia di maggior sicurezza, di un ben congegnato meccanismo di revoca drammatica: come in ogni operazione di maniera e di finzione che si rispetti, pullulano sdoppiamenti e rispecchiamenti, sosia e doppi, artifici di ogni tipo, fino alla derisione e alla commedia più delirante e barocca di parti in scena che procedono a un progressivo allontanamento dei personaggi da se stessi[6].

Sarà anche, quello di de Oliveira, un cinematografo in cui abbondano i riferimenti letterarii e il ricorso a fonti letterarie di ogni tempo e indirizzo[7] (oltre che alcuni miti di carattere ancestrale che innervano interi filoni della sua filmografia: valga per tutti quello dell'“Encoberto” don Sebastiano e del suo mistico Quinto Impero). Quello del don Sebastiano è, per il Portogallo, un mito fondativo storico e insieme letterario, nel quale a sua volta si riflette una duplice tensione che il regista ha ben presente nella sua interezza:

“La morte del re e del suo popolo ad Alcacer Quibir[8] e la sua epifania in una data incerta, tra sogno, mito e storia, si costituiscono in messianesimo. Tra soteriologia, escatologia e angelologia, affiorerà e crescerà nell'animo portoghese la figura del suo re sacralizzato. Tra tempo ed eternità, egli fisserà il momento del suo ritorno dalla morte che coinciderà con la salvazione del suo popolo. E nell'attesa del suo ritorno si sospenderà per secoli la vita di una nazione in ansie, speranze, sogni, soprattutto il sogno del Quinto Impero”[9].

Un primo aspetto del mito ha dunque a che vedere con un trauma storico, a tutta prima riconducibile a rimpianto archeo-nazionalistico: al Portogallo, che aveva inaugurato i gloriosi viaggi oceanici del tempo moderno, tocca – prima e ultima tra le grandi potenze del tempo – di perdere l'indipendenza a scadenza indefinita[10]. Il mito del re morto e scomparso servirà a tenere vivo il fantasma di una promessa di riscatto indefinibile, rimandata nei secoli sino a trasformarsi, nel suo sogno risanatorio e compensativo, in autentico simbolo di mistico disvelamento letterario[11]:

“Un mito, un sogno, quello del sebastianismo, che nasce anche come logos, ovvero si manifesta con la sua parola e attraverso di essa, nasce insomma avvolto in un'invenzione letteraria. In un duplice senso, direi: innanzitutto per la congruenza tra letteratura e sebastianismo, poiché il mito dell'encoberto ha già in sé qualcosa di letterario; lo svelamento è l'atto del poeta che cerca di scoprire l'ignoto, di penetrare quel che è occulto: l'invenzione, insomma, come rivelazione dell'oscuro”.

Non è estranea a questa fantasia secolare e palingenetica un'eco di scritture mistiche, da Isidoro di Siviglia a Gioacchino da Fiore, che non sfuggiranno nei secoli seguenti a scrittori come Fernando Pessoa il quale, anzi, nato com'era nel 1888 (l'anno che il Bandarra, trovatore ebreo converso del XVI secolo, aveva vaticinato per il ritorno del sovrano in Terra[12]), ne profitterà per presentarsi al suo tempo come inveramento al presente della profezia, congiungendo a un mito già carico di valenze esoteriche, ulteriori vibrazioni misteriche, in linea forse con un certo paludamento massonico e nazionalista che l''800 aveva riscoperto nel furore patriottico dei contrasti risorgimentali.

Di questo cumulo di simboli, de Oliveira non accoglie lo slancio patriottardo, facendo del mito del re una specie di riferimento negativo di una storia nazionale, quella portoghese, consumata in una delusa attesa messianica di rinascita.

Privo di slanci nazionalistici, il pensiero di de Oliveira non manca tuttavia di una fisionomia politica, pur se dipendente, quest'ultima, dal più profondo sedimento religioso che si radica in tutto il cinema del regista portoghese. Nell'essere, quello politico, un pensiero derivato, finisce però col caricare i film che più vi si conformano di una vena moralistica che spesso si traduce in un'opaca forma didascaleggiante. Ne riescono film come La caccia (1963) e La cassetta (1994), o anche, sia pure in un'accezione più lata, Un film parlato (2003) e il già citato Gebo e l'ombra.

La caccia è un cortometraggio di epoca salazariana che ebbe a soffrire per il suo sconsolo bilancio anti-populista: due ragazzi si avventurano in una palude e uno di essi rimane intrappolato nelle sabbie mobili che lo risucchiano verso il basso; l'altro amico raduna allora un gruppetto di volenterosi che vorrebbero prestare aiuto, salvo abbandonarsi a futili litigi mentre la fanghiglia inghiotte la vittima[13]. La cassetta è di molti anni successivo, ma il regista non ha mutato idea: il popolo è sempre quello, diviso e bilioso. Nel vicolo di un luogo imprecisato (ma il regista ci tiene a farci sapere sin dall'inizio che siamo in prossimità di un teatro, addirittura la scena stessa su cui si svolgono gli eventi potrebbe essere/è un palcoscenico naturale, dove la sera che precede gli eventi – magico preludio stranito – si esibiscono un gruppo di silfidi in tutù: tutto affinché lo spettatore non abbia a dimenticare la nozione di finzione specchiata e riflessa, rigorosamente manipolata, che sovrintende il gioco cinematografico di de Oliveira), va in scena la storia di una possibile giornata qualunque, corredata di scherzi e ammiccamenti, più o meno feroci, tra i conoscenti del luogo. Alla fine è la noia ad avere il sopravvento, il gioco e lo scherzo da bar si tramutano in baruffa e in delitto. Il popolo era e resta plebaglia, prima e dopo Salazar, e il buono che alberga nei bassifondi si perde vagando alla cieca.

Un film parlato abbraccia la questione più vasta dei popoli e delle loro originarie divisioni storiche. Mentre la protagonista del film – una professoressa di scuola – nel suo viaggio per nave, tappa dopo tappa tocca le culle simboliche delle più importanti civiltà del Mediterraneo (da Pompei ad Atene, dall'Egitto a Istanbul, con un accenno strada facendo alla vicenda ebraica), a bordo del natante si riunisce un gruppo di tre signore che raffigurano l'eredità vivente dei tempi passati: tre volti ben noti al cinema (Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas), che incarnano forse ironicamente il mito delle tre Grazie, con quella loro inspiegabile capacità di superare la barriera della lingua (nel film ciascuna di esse parla la propria lingua madre, senza che il fatto sia d'impedimento al dialogo e alla comprensione reciproca). Tiene compagnia ad esse l'amorevole comandante interpretato da John Malkovich, americano di origine greca, cui forse il regista affida l'ipotesi di un'utopica sintesi spirituale e culturale. La sola a morire nell'affondamento della nave (per mano, non casuale, di terroristi islamici) sarà la professoressa portoghese. Fiaba allegorica, certo, ma di che? Di una divisione insanabile tra le culture? O forse di un naufragio prossimo venturo di un Mediterraneo meraviglioso nella sua decrepitezza secolare ma incapace di avviarsi ad un nuovo tempo? Come che sia, il de Oliveira espressamente politico e secolare pare a tutti gli effetti regista minore: pur essendo ampiamente condivisibili, ben espresse e talora dotate di una distaccata brillantezza, le ipotesi e la foggia di questi film sono quelle minori della lezioncina didattica, dove non vibra l'invenzione.

Come, del resto, potrebbe essere diversamente, per un cineasta che non crede alla polemica, alla violenza emotiva e – cosa che più conta – non crede alla psicologia e ai suoi personaggi, sempre perseguitati e umiliati da un doppio o da una tara, un'ombra malevola. Meglio sarebbe però dire che de Oliveira diffida dell'idea di far leva sull'intreccio narrativo e sull'effetto di identificazione che ne deriva, l'espressione di alcunché. Tutto deve passare per la tecnica e il rito. Per chi non lo rammentasse, La tecnica e il rito (1972) era il titolo di un film di Jancsó in cui si narrava, nel dipanarsi di misteriose liturgie e iniziazioni, l'immaginaria ascesa di un giovane Attila. Il risultato era un film confuso, conteso da spinte contraddittorie tra il disprezzo di ogni machiavellismo e la rinnovata fascinazione per la sacralità del potere nella sua forma tirannica e orientale. In questo de Oliveira sarà sempre invece schietto e senza remore: il potere è sempre nemico giurato dell'umano. L'opposizione è proprio da intendersi così, per effetto di contrasto tra categorie universali che non prevedono possibili mediazioni dialettiche da parte della storia: inevitabile che la soluzione sia il film parabola, l'exemplum o il mistero allegorico medievale.

Ecco allora che in No, o la folle gloria del comando (1990) si misurano a distanza, con invariata atrocità d'esiti, il presente delle guerre coloniali in Angola e il passato della fallimentare impresa di Alcácer Quibir di don Sebastiano. Privata del suo multiforme divenire e delle sue accidentalità di transito, della storia resta qui solo l'ultimo nodo, il cappio, stretto intorno al collo di un popolo che non cessa di soffrire le ambizioni mondane dei suoi re e comandanti. Allo stesso modo, Atto di primavera (1963), film su una rievocazione scenica della passione di Cristo (con tanto di mise en abyme tra realtà filmata e finzione scenica), si concludeva con quegli stralci filmati di tragedia (esplosioni atomiche, guerre, corpi lacerati, deportazioni) che dovevano ripetere in forme solo apparentemente mutate la passione di Cristo nel tempo. Ancora ne Il Quinto Impero (2004), la claustrofobica teatralità della vicenda, che ha per protagonista il solito mitologico don Sebastiano, rappresenta una sorta di riflessione allucinatoria e mistica sull'azione politica e le sue premesse, in un intreccio di onirismi e fantasie (“contrasti violenti tra spazi claustrofobici e notturni squarci senz'altra luce che le stelle, con corpi che s'addormentano e statue che si animano, messa in scena dell'origine del mito politico”[14]), quasi una rielaborazione, o una rilettura, di altra più grandiosa parabola luciferina sul mito di un re-mago o santo-dittatore: lo storico dittico su Ivan il Terribile di Ejzenstein.

Con Il Quinto Impero siamo ad esiti alti, e finalmente sembra saldarsi il conto con quel versante poetico del mito del Quinto Impero sin qui solo accennato. I meriti non eludono una certa teatralità tornita, cui giova però il sottrarsi al sonnacchioso formulario dell'escatologia o del puro didascalismo. In film come i già citati Il Quinto Impero e Parola e utopia (2004) ma anche, in ambiti differenti, ne Le soulier de satin (1985), I cannibali (1988) e La divina commedia (1991), il fare teatro diviene anche sottomissione d'incanto alla parola (“Ho scoperto che il linguaggio è sovrano, anche al cinema. Tutto dev'essere sottomesso al linguaggio”[15]), in un teatro liturgico che si presta alla fantasia barocca.

La teatralità che domina il cinema di de Oliveira è insieme risorsa tecnica, che sottrae alla recitazione il gusto della vivacità simulata (vi è qui certamente il gusto, ricercato e autoimposto, come imitazione di un modello ideale, guida ed esempio formale superiore, del cinema giapponese[16]); ma è soprattutto fine e sigillo di un arcaismo ostinato e alchemico, cui non è estranea forse una sorta di crepuscolare posa aristocratica nel rifiutarsi alla storia.

In questo senso, il cinema di de Oliveira resta un'arte del movimento paradossale, come paradossali e straniti nella loro apparenza possono risultare certi film venati di ironia surreale e propriamente surrealista (La divina commedia e I Cannibali su tutti). La sorgente del paradosso di questo movimento senza dinamismo è la parola, già centrale in Amore di perdizione (1978), il film che impose all'attenzione dell'Europa (al Festival di Cannes) il lavoro di de Oliveira, e in Francisca (1981):

“Il cinema è movimento: la parola è movimento, il suono è movimento. Facciamo cinema sia riprendendo qualcuno che sta parlando, sia riprendendo una fisionomia o un'attitudine corporale. Per questo non m'importa che si dica che il film è molto parlato. Il cinema non dev'essere poco parlato. Come ho letto da qualche parte: Il linguaggio parlato è un linguaggio totale”[17].

La parola che domina come fascinazione totalizzante la magnifica messinscena ipnotica de Le soulier de satin (“una messa in parola musicale della resistenza umana alle forze della separazione e del disamore che ha per teatro il mondo intero”[18]), o parola che si eccita in forma musicale sino a farsi film-opera ne I cannibali, in cui pasto sacro, culto della morte e metamorfosi surreali si sovrammettono in una temperie tipicamente buñueliana da satira anti-borghese; ma anche parola che si fa tensione mistica e voluttuosa in Parola e utopia che narra la vicenda di padre Antonio Vieira, il gesuita del XVI secolo i cui sermoni leggendari seducevano colti e non colti di tutta Europa (Vieira che fu anche infaticabile e ardente difensore dei diritti delle popolazioni native del Brasile colonizzato). Mai però parola come semplice aggetto formalistico fine a se stesso; e siamo al nervo centrale di questo piccolo e ferrato sistema filosofico-allegorico: da ultimo è il rito che va in scena il fine.

De Oliveira è un religioso impersuaso; lo si è detto sopra, giova ripeterlo qui. Senza sottrarsi all'eredità cattolica che lo segna, de Oliveira, che fu pure allievo dei gesuiti, è a una religione liberatoria che si appella, una sorta di cultura del dubbio che invoca un approdo utopico senza curarsi al limite dell'appuntamento ultimo[19]: l'importante sarà confidare nel pensiero liberatorio di un luogo diverso cui giungere in un'eterna prospettiva di fuga, nel tempo come nello spazio. L'utopia e le sue forme innumerevoli si cristallizzano allora in un immaginario delle metamorfosi che talora paiono raggiungere vere e proprie formulazioni esoteriche[20]: Il Quinto Impero, i sermoni di Antonio Vieira e un immaginario erotico originario e reversibile (dove donna e uomo appaiono il rovescio, mai l'opposto, l'uno dell'altra, sino a confondersi nel mito platonico dell'androgino[21]) servono infine da vettori-traghetto per giungere a ... semplicità e purezza? Sì, ma solo se debitamente differite come ideali ispiratori e continuamente instabili-rivedibili. Serge Daney, critico francese dei Cahiers du Cinéma della generazione successiva ai giovani turchi (quella del “periodo giallo”), già vedeva nel cinema di de Oliveira un richiamo ad una cultura materialista e pagana[22], all'atomismo del pensiero delle origini. Formidabile strumento anche questo di slittamento indefinito della parola e del suo appuntamento con le cose. Si capisce che dietro tutta questa nervatura simbolico-letteraria c'è una ricca e spesso coltivata frequentazione dei philosophes francesi del tempo (da Deleuze a Derrida, filosofo, quest'ultimo, che de Oliveira ebbe a conoscere e frequentare), delle loro speculazioni, finezze e bizantinismi, tra teatri e doppi e specchi a non finire. L'ultimo alambicco è il cinematografo, a cui spetta di suggellare il sortilegio-approdo verso questo Quinto Impero immaginifico.

L'effetto pratico, l'atto registrato su pellicola di questo rituale elusivo e traboccante di segnature letterarie, non sarà di frequente una metamorfosi perfetta ed esente da scorie; ma forse proprio in certi adattamenti esorbitanti è il segno di una grandezza smaniosa e venerante la parola in scena, un culto per la perfezione della recita, per la musicalità del tono, qualcosa che il regista deve avere maturato cammino facendo costeggiando quella rinascenza del barocco operistico che spiccava il volo proprio negli anni migliori di de Oliveira. Di questa possibile convergenza, cinematografo-opera barocca, si servirà in anni più recenti Eugène Green, a cesello di film in cui la parola mira non più solo a farsi mirabile protagonista della scena, bensì a ricrearla ex-novo con fervore sospeso tra lo scherzo e il puro cunto fiabesco (si veda Le monde vivant e quella sua recita in panni borghesi di un'ipotetica chanson de geste, dove le apparenze sono semplicemente inganno e ironia affabulatoria).

De Oliveira resta piuttosto attratto dall'oscillazione che si produce nella realtà, dall'inganno differente e virtuosistico, poiché baroccamente saturo di trompe-l'oeil, che si produce nell'attrito tra le due sfere in collisione. La parola recitata resta incanto di scena. Se ne riverberano squarci magnifici ne Le soulier de satin e Parola e utopia: qui davvero tocchiamo la qualità formidabile dell'artigiano mago di parole catafratte in musica, di recita in trance. È questo forse il regno, bastava a questo la pietra filosofale del cineasta. Tanto che resta il dubbio: il dileguarsi tra noi poveri mortali, sarà anche l'azzardo alchemico di un nuovo clamoroso Quinto Impero?

di Michele Goni in Reti Dedalus (http://www.retididedalus.it/)

di Michele Goni

QUINTO IMPERO

L’encombrado Manoel de Oliveira[1]

L'ultima memoria vivente e fattiva del cinema delle origini si è estinta poco più di tre mesi fa con la morte del regista portoghese Manoel de Oliveira. Sopravvissuto formidabile di una fine secolo, il XX°, che aveva mietuto a frotte grandi vecchi, il regista portoghese era rimasto sulla breccia sino quasi allo scadere del tempo. Era infatti del 2012 l'ultimo cortometraggio Gebo e l'ombra, tratto, come spesso i film di de Oliveira, da una pièce teatrale (nel caso O gebo e a Sombra di Raul Brandão, dramma sulla prima repubblica portoghese e sulla sua fine in prossimità dell'avvento ormai imminente di Salazar). De Oliveira ambienta però il dramma nella Francia contemporanea, ricucendolo come un amaro apologo: è il commiato avvilito di un cineasta che dopo aver sperimentato la sferza della censura salazarista e la seguente liberazione da essa, si trova a morire disilluso in un tempo in cui il mondo occidentale apparecchia già nuovi scenari post-democratici.

Inevitabile sarà anche il riferimento a quel Portogallo contemporaneo sconciato dalla crisi e alle prese con nerboruti burocrati e speculatori venuti da fuori a spartirsi i resti migliori, i brandelli di uno stato che fu. Niente di peggio, per chi viene da un tempo di illibertà che parevano scontate una volta per tutte, che finire da capo nella pressa di comandi astratti e feroci, impartiti questa volta non a suon di manganello o archibugio, ma con in pugno il bigino delle regoline degli euroeconomisti. Fermo restando che il quarantennio/cinquantennio salazarista e le sue purghe sono inemendabili, che dire però del cipiglio degli euroburocrati che smantellano a suon di intimazioni quanto resta dell'autodeterminazione di un popolo? Il regista vacilla di fronte a tutte le illibertà senza distinzione alcuna, poiché ammesso che la brutalità attuale non si esercita con violenza, non è detto che col tempo i suoi guasti non arrivino ad essere persino peggiori.

Non parrà allora strano che de Oliveira non tratti il caso storico con riferimento diretto al paese natale (come ad esempio fa Solanas ne Il diario del saccheggio [2004], ricognizione documentaristica sull'Argentina del dopo-crac che, liberatasi dalle asfissianti maglie del dollaro, piombava in una selvaggia dismissione di stato tra miseria e fame): perché così da sempre, in una storia che si chiude ciclicamente sul peggio, non resta che affinare un sapiente scetticismo.

Così era stato per tutto il secolo breve il quale, pur avendo stentato ad aprirsi, si chiudeva fulmineamente, in un giubilo di novità. Ma questo è solo il punto di arrivo, né è detto che per de Oliveira valga da consuntivo sbrigativo di un cammino ben lungo e assai articolato.

Procediamo per gradi.

Manoel de Oliveira

De Oliveira nasce nel 1908, è quindi molto giovane quando il cinematografo si sta ancora facendo le ossa. È inoltre figlio di un ricco industriale e ama lo sport. Esordirà al cinema come attore in prossimità della fine del muto, per poi presentarsi nelle vesti di regista nel 1931, con Douro, lavoro fluviale, un cortometraggio realizzato come un poema visivo ad illustrare le attività lavorative sul fiume Douro e i dintorni della sua foce a Lisbona. Il corto è saturo delle suggestioni di Berlino – Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann, di cui riprende la movimentata illustrazione su accompagnamento musicale e il dimesso realismo, una scelta in contrasto con la vena più celebrativa di taluni corti di un Vertov. Tanto nel film di Ruttmann quanto in quello di de Oliveira, si ha l'impressione che il regista voglia darci a intendere di narrare solo ciò che capita lì per lì, senza volontà di piegare il vero ad un fine secondo, laddove gli analoghi film sovietici sono tutti presi dalla elaborazione di un mito palingenetico della giovane URSS. Ma, rispetto al pionierismo di Ruttmann, de Oliveira opera uno scarto.

Aniki bóbó (1942) è una favoletta in stile neorealista (con tanto di stile semi-documentarista e attori non-protagonisti) di amorucci infantili, nonché una prima sortita in campo allegorico. Ma l'intento del regista non è quello di raffigurare, come accade nei film neorealisti, squarci di realtà ripresi dal vero, l'idea è piuttosto quella di dipingere “il desiderio e il senso di colpevolezza, la paura e la gelosia, il rimorso e la punizione. Come lo stesso regista ha dichiarato, 'cercando di raccontare una storia semplice, volevo che i bambini rispecchiassero i problemi degli adulti, in loro ancora allo stato embrionale: la contrapposizione tra i concetti di bene e di male, di odio e di amore, di amicizia e di ingratitudine'”[2]. Il film è una specie di piccolo saggio su motivi tipicamente hitchcockiani che ritroviamo anche nel cinema del cattolico impersuaso de Oliveira: “il desiderio e il senso di colpevolezza, la paura e la gelosia, il rimorso e la punizione”[3]. In una bella lettura del film, João Bénard Da Costa mostra come già agli esordi sia soprattutto il cortocircuito paura-desiderio-castigo-liberazione a intrigare la fantasia di de Oliveira:

“Da questo punto di vista, la sequenza in cui Carlitos regala la bambola a Teresinha è prodigiosa. Il bambino la sorprende di notte, arrivando dall'alto (come un angelo o un diavolo) e la chiama mentre lei è già a letto (grazie a un cambiamento nell'illuminazione e nelle inquadrature, Teresinha appare in queste immagini più grande, come un'adolescente). Lei si alza, indossando una camicia da notte bianca, e accetta il regalo e la dichiarazione di Carlitos. Ma il momento culminante ‒ quello del bacio ‒ viene interrotto dalla caduta del ragazzo, con un'evidente connotazione sessuale. Colpevole di un furto, colpevole di uno 'stupro', Carlitos sarà poi accusato di essere un assassino. Quando la sua innocenza viene riconosciuta, restituisce la bambola (cioè si libera del furto) e 'sposa' Teresinha, liberandosi anche dello 'stupro'. L'immagine finale è quella di una coppia che porta a spasso il proprio figlio. Il film che ‒ dopo il prologo con il guaio combinato da Carlitos ‒ era iniziato con immagini che dal cielo scendevano verso la terra, nel suo finale risale dalla terra verso il cielo. La paura ‒- che possiamo intuire fin dal prologo ‒ proviene dal cielo stellato sopra le nostre teste o da questa terra dove la morale ci impone i suoi divieti e ci fa sentire costantemente in colpa?”[4].

Potrebbe essere un Marnie o un Under Capricorn, ivi compresa una certa prolissità di temi e simboli letterarii, e lo spiazzamento allegorico di età. Ma notiamo già qui un problema di fondo che riguarda l'idea di storia propria del regista: la storia è opera degli uomini e dei loro atti, o questi ultimi sono solo pedine e figuranti dentro una ribalta metafisica a tenuta stagna? È un'oscillazione che visita con regolarità i film del regista, contesa tra la rivisitazione integralmente teatrale e sacro-profana degli eventi storici, e una ricostruzione invece affidata a una riduzione interpretativa, in forma filosofico-allegorica, degli eventi[5].

Lontano dall'apparire un esordio in veste di realismo, troviamo quindi già in Aniki bóbó un corredo di temi ricorrenti. Essi si ripresenteranno intatti nei successivi riadattamenti cinematografici di una teatralità disadorna e primitiveggiante, persuaso il regista a rigettare da sé e dal suo cinema ogni forma di dissimulazione che serva da impressione di realtà. È fin d'ora chiaro, e si confermerà con accentuata ironia nel corso del tempo, che il cinema di de Oliveira è una messa in scena di idee animate, che si servono anche, a garanzia di maggior sicurezza, di un ben congegnato meccanismo di revoca drammatica: come in ogni operazione di maniera e di finzione che si rispetti, pullulano sdoppiamenti e rispecchiamenti, sosia e doppi, artifici di ogni tipo, fino alla derisione e alla commedia più delirante e barocca di parti in scena che procedono a un progressivo allontanamento dei personaggi da se stessi[6].

Sarà anche, quello di de Oliveira, un cinematografo in cui abbondano i riferimenti letterarii e il ricorso a fonti letterarie di ogni tempo e indirizzo[7] (oltre che alcuni miti di carattere ancestrale che innervano interi filoni della sua filmografia: valga per tutti quello dell'“Encoberto” don Sebastiano e del suo mistico Quinto Impero). Quello del don Sebastiano è, per il Portogallo, un mito fondativo storico e insieme letterario, nel quale a sua volta si riflette una duplice tensione che il regista ha ben presente nella sua interezza:

“La morte del re e del suo popolo ad Alcacer Quibir[8] e la sua epifania in una data incerta, tra sogno, mito e storia, si costituiscono in messianesimo. Tra soteriologia, escatologia e angelologia, affiorerà e crescerà nell'animo portoghese la figura del suo re sacralizzato. Tra tempo ed eternità, egli fisserà il momento del suo ritorno dalla morte che coinciderà con la salvazione del suo popolo. E nell'attesa del suo ritorno si sospenderà per secoli la vita di una nazione in ansie, speranze, sogni, soprattutto il sogno del Quinto Impero”[9].

Un primo aspetto del mito ha dunque a che vedere con un trauma storico, a tutta prima riconducibile a rimpianto archeo-nazionalistico: al Portogallo, che aveva inaugurato i gloriosi viaggi oceanici del tempo moderno, tocca – prima e ultima tra le grandi potenze del tempo – di perdere l'indipendenza a scadenza indefinita[10]. Il mito del re morto e scomparso servirà a tenere vivo il fantasma di una promessa di riscatto indefinibile, rimandata nei secoli sino a trasformarsi, nel suo sogno risanatorio e compensativo, in autentico simbolo di mistico disvelamento letterario[11]:

“Un mito, un sogno, quello del sebastianismo, che nasce anche come logos, ovvero si manifesta con la sua parola e attraverso di essa, nasce insomma avvolto in un'invenzione letteraria. In un duplice senso, direi: innanzitutto per la congruenza tra letteratura e sebastianismo, poiché il mito dell'encoberto ha già in sé qualcosa di letterario; lo svelamento è l'atto del poeta che cerca di scoprire l'ignoto, di penetrare quel che è occulto: l'invenzione, insomma, come rivelazione dell'oscuro”.

Non è estranea a questa fantasia secolare e palingenetica un'eco di scritture mistiche, da Isidoro di Siviglia a Gioacchino da Fiore, che non sfuggiranno nei secoli seguenti a scrittori come Fernando Pessoa il quale, anzi, nato com'era nel 1888 (l'anno che il Bandarra, trovatore ebreo converso del XVI secolo, aveva vaticinato per il ritorno del sovrano in Terra[12]), ne profitterà per presentarsi al suo tempo come inveramento al presente della profezia, congiungendo a un mito già carico di valenze esoteriche, ulteriori vibrazioni misteriche, in linea forse con un certo paludamento massonico e nazionalista che l''800 aveva riscoperto nel furore patriottico dei contrasti risorgimentali.

Di questo cumulo di simboli, de Oliveira non accoglie lo slancio patriottardo, facendo del mito del re una specie di riferimento negativo di una storia nazionale, quella portoghese, consumata in una delusa attesa messianica di rinascita.

Privo di slanci nazionalistici, il pensiero di de Oliveira non manca tuttavia di una fisionomia politica, pur se dipendente, quest'ultima, dal più profondo sedimento religioso che si radica in tutto il cinema del regista portoghese. Nell'essere, quello politico, un pensiero derivato, finisce però col caricare i film che più vi si conformano di una vena moralistica che spesso si traduce in un'opaca forma didascaleggiante. Ne riescono film come La caccia (1963) e La cassetta (1994), o anche, sia pure in un'accezione più lata, Un film parlato (2003) e il già citato Gebo e l'ombra.

La caccia è un cortometraggio di epoca salazariana che ebbe a soffrire per il suo sconsolo bilancio anti-populista: due ragazzi si avventurano in una palude e uno di essi rimane intrappolato nelle sabbie mobili che lo risucchiano verso il basso; l'altro amico raduna allora un gruppetto di volenterosi che vorrebbero prestare aiuto, salvo abbandonarsi a futili litigi mentre la fanghiglia inghiotte la vittima[13]. La cassetta è di molti anni successivo, ma il regista non ha mutato idea: il popolo è sempre quello, diviso e bilioso. Nel vicolo di un luogo imprecisato (ma il regista ci tiene a farci sapere sin dall'inizio che siamo in prossimità di un teatro, addirittura la scena stessa su cui si svolgono gli eventi potrebbe essere/è un palcoscenico naturale, dove la sera che precede gli eventi – magico preludio stranito – si esibiscono un gruppo di silfidi in tutù: tutto affinché lo spettatore non abbia a dimenticare la nozione di finzione specchiata e riflessa, rigorosamente manipolata, che sovrintende il gioco cinematografico di de Oliveira), va in scena la storia di una possibile giornata qualunque, corredata di scherzi e ammiccamenti, più o meno feroci, tra i conoscenti del luogo. Alla fine è la noia ad avere il sopravvento, il gioco e lo scherzo da bar si tramutano in baruffa e in delitto. Il popolo era e resta plebaglia, prima e dopo Salazar, e il buono che alberga nei bassifondi si perde vagando alla cieca.

Un film parlato abbraccia la questione più vasta dei popoli e delle loro originarie divisioni storiche. Mentre la protagonista del film – una professoressa di scuola – nel suo viaggio per nave, tappa dopo tappa tocca le culle simboliche delle più importanti civiltà del Mediterraneo (da Pompei ad Atene, dall'Egitto a Istanbul, con un accenno strada facendo alla vicenda ebraica), a bordo del natante si riunisce un gruppo di tre signore che raffigurano l'eredità vivente dei tempi passati: tre volti ben noti al cinema (Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas), che incarnano forse ironicamente il mito delle tre Grazie, con quella loro inspiegabile capacità di superare la barriera della lingua (nel film ciascuna di esse parla la propria lingua madre, senza che il fatto sia d'impedimento al dialogo e alla comprensione reciproca). Tiene compagnia ad esse l'amorevole comandante interpretato da John Malkovich, americano di origine greca, cui forse il regista affida l'ipotesi di un'utopica sintesi spirituale e culturale. La sola a morire nell'affondamento della nave (per mano, non casuale, di terroristi islamici) sarà la professoressa portoghese. Fiaba allegorica, certo, ma di che? Di una divisione insanabile tra le culture? O forse di un naufragio prossimo venturo di un Mediterraneo meraviglioso nella sua decrepitezza secolare ma incapace di avviarsi ad un nuovo tempo? Come che sia, il de Oliveira espressamente politico e secolare pare a tutti gli effetti regista minore: pur essendo ampiamente condivisibili, ben espresse e talora dotate di una distaccata brillantezza, le ipotesi e la foggia di questi film sono quelle minori della lezioncina didattica, dove non vibra l'invenzione.

Come, del resto, potrebbe essere diversamente, per un cineasta che non crede alla polemica, alla violenza emotiva e – cosa che più conta – non crede alla psicologia e ai suoi personaggi, sempre perseguitati e umiliati da un doppio o da una tara, un'ombra malevola. Meglio sarebbe però dire che de Oliveira diffida dell'idea di far leva sull'intreccio narrativo e sull'effetto di identificazione che ne deriva, l'espressione di alcunché. Tutto deve passare per la tecnica e il rito.

Per chi non lo rammentasse, La tecnica e il rito (1972) era il titolo di un film di Jancsó in cui si narrava, nel dipanarsi di misteriose liturgie e iniziazioni, l'immaginaria ascesa di un giovane Attila. Il risultato era un film confuso, conteso da spinte contraddittorie tra il disprezzo di ogni machiavellismo e la rinnovata fascinazione per la sacralità del potere nella sua forma tirannica e orientale. In questo de Oliveira sarà sempre invece schietto e senza remore: il potere è sempre nemico giurato dell'umano. L'opposizione è proprio da intendersi così, per effetto di contrasto tra categorie universali che non prevedono possibili mediazioni dialettiche da parte della storia: inevitabile che la soluzione sia il film parabola, l'exemplum o il mistero allegorico medievale.

Ecco allora che in No, o la folle gloria del comando (1990) si misurano a distanza, con invariata atrocità d'esiti, il presente delle guerre coloniali in Angola e il passato della fallimentare impresa di Alcácer Quibir di don Sebastiano. Privata del suo multiforme divenire e delle sue accidentalità di transito, della storia resta qui solo l'ultimo nodo, il cappio, stretto intorno al collo di un popolo che non cessa di soffrire le ambizioni mondane dei suoi re e comandanti. Allo stesso modo, Atto di primavera (1963), film su una rievocazione scenica della passione di Cristo (con tanto di mise en abyme tra realtà filmata e finzione scenica), si concludeva con quegli stralci filmati di tragedia (esplosioni atomiche, guerre, corpi lacerati, deportazioni) che dovevano ripetere in forme solo apparentemente mutate la passione di Cristo nel tempo. Ancora ne Il Quinto Impero (2004), la claustrofobica teatralità della vicenda, che ha per protagonista il solito mitologico don Sebastiano, rappresenta una sorta di riflessione allucinatoria e mistica sull'azione politica e le sue premesse, in un intreccio di onirismi e fantasie (“contrasti violenti tra spazi claustrofobici e notturni squarci senz'altra luce che le stelle, con corpi che s'addormentano e statue che si animano, messa in scena dell'origine del mito politico”[14]), quasi una rielaborazione, o una rilettura, di altra più grandiosa parabola luciferina sul mito di un re-mago o santo-dittatore: lo storico dittico su Ivan il Terribile di Ejzenstein.

Con Il Quinto Impero siamo ad esiti alti, e finalmente sembra saldarsi il conto con quel versante poetico del mito del Quinto Impero sin qui solo accennato. I meriti non eludono una certa teatralità tornita, cui giova però il sottrarsi al sonnacchioso formulario dell'escatologia o del puro didascalismo. In film come i già citati Il Quinto Impero e Parola e utopia (2004) ma anche, in ambiti differenti, ne Le soulier de satin (1985), I cannibali (1988) e La divina commedia (1991), il fare teatro diviene anche sottomissione d'incanto alla parola (“Ho scoperto che il linguaggio è sovrano, anche al cinema. Tutto dev'essere sottomesso al linguaggio”[15]), in un teatro liturgico che si presta alla fantasia barocca.

La teatralità che domina il cinema di de Oliveira è insieme risorsa tecnica, che sottrae alla recitazione il gusto della vivacità simulata (vi è qui certamente il gusto, ricercato e autoimposto, come imitazione di un modello ideale, guida ed esempio formale superiore, del cinema giapponese[16]); ma è soprattutto fine e sigillo di un arcaismo ostinato e alchemico, cui non è estranea forse una sorta di crepuscolare posa aristocratica nel rifiutarsi alla storia.

In questo senso, il cinema di de Oliveira resta un'arte del movimento paradossale, come paradossali e straniti nella loro apparenza possono risultare certi film venati di ironia surreale e propriamente surrealista (La divina commedia e I Cannibali su tutti). La sorgente del paradosso di questo movimento senza dinamismo è la parola, già centrale in Amore di perdizione (1978), il film che impose all'attenzione dell'Europa (al Festival di Cannes) il lavoro di de Oliveira, e in Francisca (1981):

“Il cinema è movimento: la parola è movimento, il suono è movimento. Facciamo cinema sia riprendendo qualcuno che sta parlando, sia riprendendo una fisionomia o un'attitudine corporale. Per questo non m'importa che si dica che il film è molto parlato. Il cinema non dev'essere poco parlato. Come ho letto da qualche parte: Il linguaggio parlato è un linguaggio totale”[17].

La parola che domina come fascinazione totalizzante la magnifica messinscena ipnotica de Le soulier de satin (“una messa in parola musicale della resistenza umana alle forze della separazione e del disamore che ha per teatro il mondo intero”[18]), o parola che si eccita in forma musicale sino a farsi film-opera ne I cannibali, in cui pasto sacro, culto della morte e metamorfosi surreali si sovrammettono in una temperie tipicamente buñueliana da satira anti-borghese; ma anche parola che si fa tensione mistica e voluttuosa in Parola e utopia che narra la vicenda di padre Antonio Vieira, il gesuita del XVI secolo i cui sermoni leggendari seducevano colti e non colti di tutta Europa (Vieira che fu anche infaticabile e ardente difensore dei diritti delle popolazioni native del Brasile colonizzato). Mai però parola come semplice aggetto formalistico fine a se stesso; e siamo al nervo centrale di questo piccolo e ferrato sistema filosofico-allegorico: da ultimo è il rito che va in scena il fine.

De Oliveira è un religioso impersuaso; lo si è detto sopra, giova ripeterlo qui. Senza sottrarsi all'eredità cattolica che lo segna, de Oliveira, che fu pure allievo dei gesuiti, è a una religione liberatoria che si appella, una sorta di cultura del dubbio che invoca un approdo utopico senza curarsi al limite dell'appuntamento ultimo[19]: l'importante sarà confidare nel pensiero liberatorio di un luogo diverso cui giungere in un'eterna prospettiva di fuga, nel tempo come nello spazio. L'utopia e le sue forme innumerevoli si cristallizzano allora in un immaginario delle metamorfosi che talora paiono raggiungere vere e proprie formulazioni esoteriche[20]: Il Quinto Impero, i sermoni di Antonio Vieira e un immaginario erotico originario e reversibile (dove donna e uomo appaiono il rovescio, mai l'opposto, l'uno dell'altra, sino a confondersi nel mito platonico dell'androgino[21]) servono infine da vettori-traghetto per giungere a ... semplicità e purezza? Sì, ma solo se debitamente differite come ideali ispiratori e continuamente instabili-rivedibili.

Un fotogramma di Le soulier de satin, diretto da de Oliveira nel 1985

Serge Daney, critico francese dei Cahiers du Cinéma della generazione successiva ai giovani turchi (quella del “periodo giallo”), già vedeva nel cinema di de Oliveira un richiamo ad una cultura materialista e pagana[22], all'atomismo del pensiero delle origini. Formidabile strumento anche questo di slittamento indefinito della parola e del suo appuntamento con le cose. Si capisce che dietro tutta questa nervatura simbolico-letteraria c'è una ricca e spesso coltivata frequentazione dei philosophes francesi del tempo (da Deleuze a Derrida, filosofo, quest'ultimo, che de Oliveira ebbe a conoscere e frequentare), delle loro speculazioni, finezze e bizantinismi, tra teatri e doppi e specchi a non finire. L'ultimo alambicco è il cinematografo, a cui spetta di suggellare il sortilegio-approdo verso questo Quinto Impero immaginifico.

L'effetto pratico, l'atto registrato su pellicola di questo rituale elusivo e traboccante di segnature letterarie, non sarà di frequente una metamorfosi perfetta ed esente da scorie; ma forse proprio in certi adattamenti esorbitanti è il segno di una grandezza smaniosa e venerante la parola in scena, un culto per la perfezione della recita, per la musicalità del tono, qualcosa che il regista deve avere maturato cammino facendo costeggiando quella rinascenza del barocco operistico che spiccava il volo proprio negli anni migliori di de Oliveira. Di questa possibile convergenza, cinematografo-opera barocca, si servirà in anni più recenti Eugène Green, a cesello di film in cui la parola mira non più solo a farsi mirabile protagonista della scena, bensì a ricrearla ex-novo con fervore sospeso tra lo scherzo e il puro cunto fiabesco (si veda Le monde vivant e quella sua recita in panni borghesi di un'ipotetica chanson de geste, dove le apparenze sono semplicemente inganno e ironia affabulatoria).

De Oliveira resta piuttosto attratto dall'oscillazione che si produce nella realtà, dall'inganno differente e virtuosistico, poiché baroccamente saturo di trompe-l'oeil, che si produce nell'attrito tra le due sfere in collisione. La parola recitata resta incanto di scena. Se ne riverberano squarci magnifici ne Le soulier de satin e Parola e utopia: qui davvero tocchiamo la qualità formidabile dell'artigiano mago di parole catafratte in musica, di recita in trance. È questo forse il regno, bastava a questo la pietra filosofale del cineasta. Tanto che resta il dubbio: il dileguarsi tra noi poveri mortali, sarà anche l'azzardo alchemico di un nuovo clamoroso Quinto Impero?

di Michele Goni in Reti Dedalus (http://www.retididedalus.it/)

[1] Si prendano le pagine seguenti come la ricognizione non tanto di un'idea fondante la totalità dei film di Manoel de Oliveira, quanto piuttosto di temi singolari, talora portanti e ricorrenti, che risorgono a intervalli di tempo lungo una filmografia ramificata e a tratti misteriosa.

[2] João Bénard Da Costa, Aniki-Bóbó, 2004, all'indirizzo internet http://www.treccani.it/enciclopedia/aniki-bobo_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

[3] João Bénard Da Costa, cit.http://www.treccani.it/enciclopedia/aniki-bobo_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

[4] João Bénard Da Costa, cit.http://www.treccani.it/enciclopedia/aniki-bobo_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

[5] A questi temi ne va aggiunto a mio avviso anche uno soggiacente, già affacciatosi in Douro, lavoro fluviale: quello dell'intimidazione autoritaria. Non sarà un caso quell'apparizione improvvisa e minacciosa in entrambi i film di poliziotti che spaventano i personaggi con la loro entrata in scena, evidente richiamo simbolico al rigido clima di controllo sotto cui vive il Portogallo del tempo.

[6] Vedi il Padre Vieira protagonista di Parola e utopia (2000).

[7] “Il abordait avec la même fraicheur intellectuelle les oeuvres de Madame La Fayette, de Flaubert, de Claudel et la matière mélodramatique du XIXe siècle [...] les sermons de père Antonio Vieira et un roman d'Augustina Bessa-Luis, sa principale source et son amie. Il a tiré le plus grand profit des thèmes les plus sombres du romantisme, sans perdre son sang-froid: Ann Radcliff, Balzac, Dostojevski et, plus directement, Camilo Castel Branco, son inspirateur le plus ancien, ou leur successeurs, Àlvaro de Carvalhal, Raul Brandäo, et José Régio qui fut aussi son ami”. Alain Masson, Hommage – Manoel de Oliveira 1908-2015 – Façon de Portugal, Positif del maggio 2015, p. 66.

[8] La battaglia tra le truppe marocchine e quelle comandate da don Sebastiano che fu causa della morte, o meglio, della sparizione del re, restando così alla base del suo mito.

[9] Giulia Lanciani, Il sebastianismo: un sogno che nasce come logos, p. 341, documento in pdf reperibile all'indirizzo internet http://cvc.cervantes.es/literatura/aispi/pdf/09/09_337.pdf.

[10] “Invaso il paese dal duca d'Alba, coronato Filippo II di Spagna come re di Portogallo, resta al patriottismo portoghese la speranza che il Desiderato torni a ristabilire la sovranità nazionale. E la speranza si converte in mito, il mito dell'Encoberto. È il re occulto, il re velato, forse fuggito in terre lontane, forse prigioniero, ma che tornerà in un mattino nebbioso in sella al suo cavallo bianco per farsi capo universale del nuovo Impero”. Giuliana Lanciani, cit., p. 341.

[11] Il sogno del ritorno del re è intriso anche dell'auspicio di una rifondazione integrale della civiltà e dell'uomo portoghesi: “Ecco allora che i fatti storici negativi (come Alcácer Quibir e la scomparsa del re in battaglia) si trasformano in elementi archetipici della capacità di palingenesi di fronte alla sconfitta, rinascita che non si arresta alla dimensione concreta di rinnovamento storico, ma va fino al rinnovamento spirituale dell'uomo portoghese e della sua patria, che dovrebbe portare al Quinto Impero, concepito in termini terreni e spirituali”. Giuliana Lanciani, cit., p. 341.

[12] Giuliana Lanciani, cit., p. 340.

[13] Il film, rieditato in tempi successivi, circola oggi con un doppio finale: quello emendato dal regime, dove i soccorritori, messi a parte i loro contrasti, si adoperano con successo per il salvataggio del ragazzo; e quello originale voluto dal regista (e che ai tutori della morale di Stato dovette apparire inammissibile), dove le divisioni tra i soccorritori impediscono il buon esito della missione di salvataggio.

[14] Francesco Saverio Niso, Manoel de Oliveira – Cinema, parola e politica, Genova, Le Mani, 2012, p. 196.

[15] Jean-Loup Passek [a cura di], Le cinéma portugais, Paris, Centre Pompidou/L'Equerre, 1982, p. 173, citato in Francesco Saverio Niso, cit., p. 113.

[16] “Il rituale è molto significativo. Oggi, per esempio, non si fa più uso del cappello. Nel tempo, quando ci si incontrava per strada, ci si levava il cappello. Come gesto non valeva niente, come rito molto. Si tratta a mio parere del principio cinematografico. Questo movimento è la continuità del rituale. Se non conosciamo il significato, il movimento è inutile. Bisogna comprenderlo. Ecco cosa fa la grandezza del cinema giapponese, il fatto che è pieno di rituali [...] Io sono stato molto segnato dal cinema giapponese. Penso che anche il cinema giapponese abbia dato un'enorme quantità di cose al cinema europeo”. Antoine de Baecque – Jacques Parsi, Conversations avec Manoel de Oliveira, Paris, Cahiers du Cinéma, 1996. Citato in Francesco Saverio Niso, Op. cit., pp. 170-171.

[17] Roberto Turigliatto – Simona Fina [a cura di], Amori di perdizione. Storie di cinema portoghese 1970-1999, Torino, Lindau, 1999. Citato da Francesco Saverio Niso, cit., pp. 113-114. Alla fine “si può dunque affermare che tutti i film citati, e il complesso dell'opera del cineasta lusitano, siano ispirati da una «piccola metafisica della parola»”. Francesco Saverio Niso, cit., p. 114.

[18] Francesco Saverio Niso, cit., p. 138.

[19] “Ho una posizione, per così dire, di dubbio religioso, di fronte al dubbio religioso, ma al contempo provo il bisogno di trovare la fonte di tutto ciò, vale a dire provo il desiderio di trovare un regno del quale non possiamo sapere se un giorno lo raggiungeremo”. Francesco Saverio Niso, cit., p. 205.

[20] Tali riferimenti, presenti già in Aniki-Bobo (in particolare nel rapporto uomo-donna raffigurato nel gioco dei due bimbi), si infittiscono in film come Atto di primavera, Il passato e il presente, Benilde o la vergine madre e Parola e utopia.

[21] Il rimando alla valenza religiosa del mito viene dallo stesso regista: “È quella vecchia storia di Platone: prima della creazione, uomini e donne erano uno solo, poi furono separati come due metà di un'arancia. Ma vogliono tornare ad unirsi. Trovare l'altra metà. Il sesso invoca l'androgino... [...] Mentre la presenza reale separa. Separa più della nostalgia. In fondo, tutti vogliono realizzarsi in Dio. È sempre, sempre la stessa storia”. Roberto Turigliatto – Simona Fina [a cura di], Amori di perdizione, Storie di cinema portoghese 1970-1999, Torino, Lindau, 1999. In Francesco Saverio Niso, cit., p. 204.

[22] Rinforza l'ipotesi Francesco Saverio Niso, accreditando il richiamo alla teologia dei primi pensatori greci così come li concepiva Werner Jaeger, i quali concepivano “tutta l'esperienza di Dio rivolta e orientata verso la realtà […] nonché scaturita da una multiforme visione mitica del mondo, i cui aspetti si mutano e, per così dire, si rettificano con sempre nuove intuizioni”. Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 273. In Francesco Saverio Niso, cit., p. 204.